Repubblica 25.10.16
Dylan Dog
Tiziano Sclavi: “Torno a scrivere i miei incubi a fumetti”
Tra alcol e fantasmi, il padre del detective regala all’eroe una storia autobiografica in anteprima a Lucca Comics
intervista di Luca Valtorta
VENEGONO
SUPERIORE (VARESE) Cielo sfocato plumbeo. L’ultima casa in fondo alla
strada, poi il bosco. Nel bosco potrebbe esserci il lupo cattivo, il
babau, l’uomo nero o... una mamma. Nella grande casa c’è un bambino che
sogna e dà una forma ai suoi incubi. Si chiama Tiziano. Adesso è un
uomo. Fa un cenno di saluto dalla finestra. Sono passati tre anni
dall’ultima volta. Il cancello si apre piano. Tutto sembra rimasto
uguale: il prato curato, la macchina d’epoca rossa davanti
all’abitazione, il capanno in fondo al giardino, persino l’assalto dei
sette bassotti non appena si spalanca la porta. Non è successo niente.
Non è solo un modo di dire: Non è successo niente è il titolo del
romanzo più importante di Tiziano Sclavi, un capitolo imprescindibile
della sua storia, essenziale per capire il suo mondo. «Un tempo quel
romanzo per me è stato importante, adesso vorrei che venisse bruciato». I
bassottini non danno tregua, abbaiano, saltano. «Sediamoci qui, sul
divano ». Come l’ultima volta. Però invece è diverso. Tiziano Sclavi
adesso ha una barba che gli incornicia il volto, che lo rende meno
somigliante al suo personaggio, Dylan Dog, ma rende onore alla sua lotta
interiore, alle sue ferite: non più eterno giovane come per necessità
nelle pagine del suo alter ego, ma uomo che ha attraversato stagioni di
grande dolore. Si siede, accarezza il bassottino che si è messo sopra di
lui, un bicchiere di Coca Cola davanti. Fuma sigarette senza numero.
Dopo
quasi dieci anni, è tornato a scrivere una sceneggiatura di Dylan Dog:
Dopo un lungo silenzio – questo il titolo – è la storia che sarà
presentata venerdì a Lucca Comics (il festival è in programma fino al
primo novembre).
Come mai dopo appunto, un lungo silenzio, è tornato a scrivere?
«Si vede che dopo tanto tempo era venuto il momento».
È stato faticoso?
«Molto.
Così come lo è stata l’altra storia che ho scritto che adesso sta
illustrando Stano, non so quando uscirà. E poi ne avevo iniziato una
terza, ma dopo venticinque pagine mi sono bloccato: avevo trovato una
chiave bellissima, ero molto contento e... poi l’ho persa, svanita,
dimenticata. E così sono tornato a fare il pensionato ».
Questa storia parla anche di
fantasmi. I fantasmi sono molto importanti per lei. Perché?
«Sono
da sempre la cosa che mi fa più paura, non so perché. Ma questa storia è
diversa: qui il fantasma non è una presenza più o meno terrificante, ma
un’assenza. L’assenza di una persona che il protagonista ha amato e ama
ancora. Io, come credo tutte le persone di una certa età, di assenze ne
ho tante. E tutte le sere parlo con i miei fantasmi, chiedo perdono e
molto spesso piango».
A proposito di sofferenza, nel suo Dylan le mamme sono spesso cattive, come mai?
«Mia
mamma era un genio del male. Non parliamo dei miei genitori che mi
hanno messo al mondo col solo scopo di rovinarmi la vita e ci sono
riusciti, almeno fino a quando non ho avuto quarant’anni e ho incontrato
Cristina. Quanto ai genitori di Dylan, raccontare il suo passato è una
cosa che vorrei non aver mai fatto. Ci sono tanti personaggi che ho
inventato e che adesso detesto».
La storia di “Dopo un lungo
silenzio” affronta un tema che la tocca molto da vicino: l’alcolismo. Un
soggetto che fa venire i brividi più di qualsiasi mostro. Come mai ha
voluto raccontarlo?
«Ce l’avevo in mente da decenni. Sono un
alcolista e grazie agli Alcolisti Anonimi non bevo dal 1987, a parte una
sciagurata ricaduta (ma gli AA usano il termine “scivolata”) nel 2000,
da cui sono uscito grazie a Cristina. Ne avevo già parlato nel romanzo
Non è successo niente, ma ci tenevo a testimoniare ancora, per un
pubblico più vasto, il mio amore per gli Alcolisti Anonimi. Non so se
l’ho fatto bene: è un tema che avrebbe richiesto molte più pagine di
quelle di un albo a fumetti e probabilmente un narratore migliore. Ma ci
ho provato».
Come è avvenuta la “scivolata”?
«L’alcolista non può
permettersi di bere niente, mai. Io sono scivolato in un periodo in cui
stavo molto bene: assaggi due dita di vino dolce, una birra analcolica –
sono terribili le birre analcoliche – e senza che te ne rendi conto ci
ritorni dentro. Io sono uno che diventa dipendente da tutto. Adesso sono
dipendente dalla Coca Cola, per non parlare delle sigarette... ».
L’altro tema importante del suo racconto è il silenzio. Cosa è per lei?
«Dipende.
Il silenzio può essere una solitudine assordante e io l’ho provata.
Oppure può significare, come qui nel bosco in cui abito, pace. Nella
storia è sinonimo di disperazione che può risolversi solo con la morte».
In questo racconto ho trovato molti riferimenti anche a “Non è successo niente”.
Quanto è stato importante quel libro?
«Quanto
tutti gli altri, tutti tentativi patetici. Sono contento che siano
finiti al macero e che siano introvabili. Impedirò di ristamparli ».
Bob Dylan ha vinto il Nobel per la letteratura. È giusto?
«Giustissimo,
anche se io non conosco bene l’inglese e non posso dare un giudizio
sulle canzoni, ma il principio è assolutamente corretto».
Non c’entra niente vero Bob Dylan con il suo personaggio?
«No,
assolutamente. Viene da Dylan Thomas e da un romanzo di Spillane, Dog
figlio di, che vidi nella vetrina di una libreria, ma che non ho mai
comprato, né letto ».
A Lucca Comics ci saranno i festeggiamenti per i trent’anni di Dylan. Ci sarà?
«Ho paura della folla: per me quello è l’inferno».
Un po’ di nostalgia?
«Nessuna. Non rileggo mai le cose che ho scritto perché so che me ne vergognerei. Io ho nostalgia solo del futuro».
E allora nel futuro cosa succederà?
«Non lo so. Altri trent’anni...? ».