Repubblica 24.10.16
La guerra civile europea e l’amarezza di
Croce. Anticipiamo l’estratto di un saggio che Luciano Canfora ha
scritto per il prossimo numero della rivista Quaderni di storia e
intitolato Croce e la “guerra civile”
Si tratta della
rielaborazione di un intervento svolto a Roma presso l’Enciclopedia
Italiana, alla presentazione del volume Croce-Gentile a cura di Michele
Ciliberto, l’ 8 giugno del 2016
di Luciano Canfora
Il
filosofo fu deluso dagli alleati che a fine conflitto imposero
all’Italia clausole punitive, rompendo il fronte che aveva diviso
l’Europa e anche il nostro Paese contro il fascismo
ITaccuini di
Benedetto Croce relativi agli anni 1943-1945 furono editi, anni
addietro, da Adelphi (“Taccuini di guerra”, 2004). Memorabile, tra le
molte altre, la pagina di diario datata 17 aprile ’44, scritta sotto
l’impressione della notizia dell’uccisione, a Firenze, di Giovanni
Gentile. Scrive Croce: «La mattina a prima ora, è venuto da Capri il
buon Brindisi a discorrere con me di quanto sta operando colà come
sindaco molto zelante, e nel mezzo del discorso mi ha detto di aver
udito sul battello che il Gentile è stato ammazzato a Firenze!
La notizia, purtroppo, è stata poco dopo confermata dalla Radio di Londra».
(…)
Vi è comunque un’altra nota diaristica, questa volta del genero di
Croce, Raimondo Craveri, che aggiunge un altro dettaglio: «A metà aprile
1944, Giovanni Gentile era stato ammazzato a Firenze. Croce mi domandò
da chi. Risposi dai partigiani. Il commento fu: Ammazzano anche i
filosofi». (…) Significativo è il commento di Craveri: «Con quelle
parole Croce prendeva coscienza, di una guerra civile ormai in corso e
non soltanto di una animosa resistenza militare contro i Tedeschi».
L’osservazione
di Craveri non è esatta. In Croce, infatti, la consapevolezza, del
carattere di “guerra civile” del grande conflitto in corso si era venuta
formando da tempo. Lo attestano le parole dolenti e meditate da lui
pronunciate nel memorabile discorso di apertura del Congresso nazionale
dei CLN tenutosi a Bari, nonostante il boicottaggio alleato, il 28
gennaio 1944: «(…) A poco a poco la luce si fece in noi: cominciammo a
udire intorno a noi il giudizio che la presente guerra non era una
guerra tra popoli ma una guerra civile; e più esattamente ancora, che
non era una semplice guerra di interessi politici ed economici, ma una
guerra di religione; e per la nostra religione, che aveva il diritto di
comandarci, ci rassegnammo al penoso distacco dalla brama di una
vittoria italiana, di una vittoria che sarebbe stata non solo la rovina
del restante mondo ma quella dell’Italia resa schiava della Germania e,
direi, della stessa Germania resa a sua volta indefinitivamente schiava
di una frazione di prepotenti, schiavi essi stessi della propria
sfrenata ed ebbra animalità, giacché solo le idee legano gli uomini,
serbandoli liberali, e la Germania oggi non ha idee ma cupidità ed
istinti brutali».
In questa pagina si coglie il travaglio di un
uomo del secolo XIX alle prese con una lacerazione che già nel
precedente conflitto mondiale si era prodotta in lui al bivio: da un
lato il rammarico profondo per la irreparabile frattura nella res
publica litterarum e l’adesione alla grande cultura filosofica e
letteraria tedesca, e dall’altro il doversi allineare per “patriottismo”
alle scelte senza ritorno compiute dal governo del proprio Paese.
Ora,
con la guerra in cui l’Italia si era, non senza complicità della
Corona, inabissata, la lacerazione era ancora più forte e alla lunga
insostenibile: perché quella era la guerra, non dell’Italia, ma del
fascismo e inoltre perché, per un tempo non breve, e decisivo, la guerra
– facendosi, da europea, mondiale – era diventata sempre più
chiaramente una “guerra civile”, una guerra tra i fascismi, tra loro
saldamente coalizzati, e gli avversarî, ciascuno mosso da sue proprie
motivazioni, del fascismo; e dunque una guerra che di necessità
attraversava e dilaniava ogni singolo Paese, e l’Italia e la Francia più
che altri. Croce intuisce e formula ben prima di altri il concetto di
«guerra civile europea». (…) Ma Croce è anche, mentre svolge questo
ragionamento, abile politico. Egli sa bene, perché l’esperienza storica
dei destini d’Italia tra Bonaparte e Restaurazione glielo documenta, che
l’intreccio tra «guerra civile», o «di religioni» o «di valori»
contrapposti, e politica di potenza è inestricabile. E perciò, mentre si
spinge a dire con estrema chiarezza: «Noi ricercammo ansiosi la
formazione dell’avvenire migliore dell’Italia non già nei successi
militari del cosiddetto Asse ma nei progressi lenti e faticosi
dell’Inghilterra, e poi della Russia e della America», ammonisce subito
dopo gli Alleati a non tradire le aspettative italiane alla maniera in
cui nel 1814/15 le potenze coalizzate contro Bonaparte avevano illuso, e
poi tradito, i popoli il cui appoggio avevano sollecitato onde
sconfiggere Bonaparte. E lo dice – in un lembo d’Italia sotto stretto
controllo anglo- americano – in una forma di auspicio ammantato di
certezza, che però suona soprattutto come ammonimento: «Un legame,
dunque, si è stretto tra noi e le potenze alleate, un legame diverso e
superiore a quello dei trattati politici, degli armistizi e delle rese,
perché è in una promessa di carattere morale e religioso, da noi
religiosamente accolta. E noi sappiamo bene che questa volta non accadrà
quello che altra volta accadde nella storia d’Italia, quando, dopo aver
eccitato le popolazioni italiane a scuotere il dominio napoleonico, e a
rivendicarsi a indipendenza e libertà, le potenze vincitrici le
riconsegnarono ai vecchi aborriti regimi, e un nostro poeta, il più
temperato e meditativo dei nostri poeti (ho detto Alessandro Manzoni),
dové amaramente rimproverarli: “O stranieri, sul vostro stendardo – sta
l’obbrobrio di un giuro tradito” (…)».
Quando poi la dura realtà
effettuale si manifestò e gli Alleati operarono vieppiù da grandi
potenze e sempre meno da «collaboratori ad un’opera comune», la reazione
di Croce fu netta e non scevra da amarezza. In un articolo del
settembre ’45 scrive, rivolgendosi ai vincitori: «Noi accettiamo da
parte nostra le responsabilità di aver lasciato impiantare il regime
fascista e di non aver avuto la possibilità di buttarlo via con una
scossa quando dichiarò la stolta guerra, perché i debiti, in qualsiasi
modo contratti, si debbono pagare; ma che di fronte ai debitori ci sono i
creditori onesti e ragionevoli, e ci sono gli spietati e odiosi usurai;
e agli Alleati non gioverà farsi annoverare tra questi ultimi». (…)
Ultimo atto di questa vicenda può considerarsi il discorso alla
Costituente contro la bozza di trattato di pace. (…) In quel discorso
Croce prende le distanze dallo schematico ragionamento in cui aveva
creduto appena tre anni prima, nel gennaio del ’44, che cioè la natura
di «guerra civile», inerente al conflitto allora ancora in atto ma ormai
volgente al termine, avrebbe per automatico riflesso affratellati e
posti dalla stessa parte i vincitori e gli italiani che combattevano il
fascismo (ancora in piedi) e che sempre più s’impegnavano a dar vita,
prima ancora che la guerra fosse terminata, ad una nuova e diversa
Italia assertrice degli stessi valori e propositi che i vincitori (e in
primis gli anglo-americani). Ora invece egli è costretto a prendere atto
che i vincitori – unendo alla necessaria richiesta di risarcimento un
giudizio morale sui vinti – ammantano, ancora una volta, «la ricerca
dell’utile sotto la maschera del giudice imparziale». (…) Non è questa
la sede per riaprire la vexata quaestio. Ciò che qui importa osservare è
la dolorosa presa d’atto, da parte di Croce ormai più che ottuagenario e
leader indiscusso della parte liberale della Costituente, della
impraticabilità di quell’automatismo non necessariamente implicito nella
pur pertinente nozione di «guerra civile» europea (o meglio
planetaria): e soprattutto il riconoscimento, ancora una volta, di
quella «durezza della politica» da lui lucidamente intesa ma
ostinatamente avversata sul piano morale.