Repubblica 24.10.16
Referendum, le ragioni dell’astensione
di Roberto Esposito
COME
ci dicono i sondaggi, la percentuale di coloro che si asterranno dal
voto, sommata a quella di coloro che non hanno ancora deciso a chi darlo
resta molto alta. Come mai? Come si spiega questa distanza, o esplicita
avversione, di una larga parte dell’elettorato in un contesto in cui i
media, giornali e televisioni, appaiono impegnati non solo a informare
sul merito dei quesiti referendari, ma a sollecitare uno schieramento da
una parte o dall’altra? Certo, tutti lo sanno, l’intera vicenda è nata
in maniera impropria, scivolando in una sorta di ordalia sull’operato
del governo e del presidente del Consiglio. A questo primo errore si è
sommato il peso di una campagna fuori dalle righe, con tonalità
fragorose e a volte scomposte, che può aver infastidito parte
dell’opinione pubblica. Che un evento di alto profilo istituzionale sia
divenuto occasione per una resa dei conti non solo tra maggioranza e
opposizione, ma anche all’interno di uno stesso partito, il Pd, non
dispone a una partecipazione attiva e motivata. Infine l’impressione che
alcune forze schierate per il No, come ciò che rimane di Forza Italia e
lo stesso Berlusconi, non credano in ciò che dicono o addirittura
parteggino, in modo coperto, per la tesi opposta, lascia sconcertati.
Ma
non solo di questo si tratta. C’è qualcosa di altro che, anche al netto
di tutto ciò, rende freddi. Non coloro che, certo legittimamente, si
limitano a difendere la costituzione vigente — forse “la più bella del
mondo”, ma certo risalente a una stagione per molti versi superata. Ma
quelli, collocati soprattutto a sinistra, favorevoli a riattivare un
processo costituente, rispettoso dei principi fondamentali, ma anche
capace di ripensarne l’articolazione. Il problema sta proprio in ciò che
s’intende per rinnovamento. Naturalmente il primo compito della
Costituzione è quello di unire la Nazione intorno a valori comuni. Ma,
come avvertiva Costantino Mortati, questi valori non sono esterni alle
dinamiche politiche e sociali in cui devono calarsi. È appunto questa
connessione, o questa tensione, tra i due sensi di intendere la
Costituzione, che sembra mancare nell’attuale progetto di riforma. Senza
entrare nel merito della sua coerenza interna — quantomeno problematica
— e neanche di quelli che potranno essere i suoi effetti sulla
governance, ciò che appare evidente, rispetto alla richiesta che sale
dal Paese, è la sua mancata anima politica. La sua portata puramente
tecnico- amministrativa.
È ovvio che l’ammodernamento della
macchina amministrativa è condizione necessaria della dinamica politica.
Ma non sufficiente. Quella che si chiama governance non può esaurire il
governo del Paese, nel senso alto del termine. Può un progetto di
riforma costituzionale acquisire un rilievo politico o essa deve
limitarsi al ritocco delle regole del gioco? Le due cose, che vanno
tenute distinte, non sono tuttavia indipendenti. Almeno se si richiama
in gioco quella connessione ineludibile tra Costituzione formale e
Costituzione materiale che tanti, a partire da Gustavo Zagrebelsky,
hanno richiamato, senza però, mi pare, indicare a sufficienza i punti di
possibile incidenza tra i due piani. Il problema, non adeguatamente
elaborato, è che viviamo una stagione assai difficile per il sistema
politico, assediato da spinte antipolitiche. Per fronteggiarle è
richiesta proprio la capacità di mobilitazione, la forza di innovazione,
la volontà di porre sul campo grandi questioni politiche al momento
assenti tanto nella prospettiva del Sì, quanto in quella del No.
Di
tali questioni — ovviamente non da assumere a oggetto di referendum, ma
da lasciare intravedere almeno come obiettivo possibile — ne indico
tre. La questione dell’Europa. Un referendum significativo per la vita
di uno Stato europeo non può non implicare una qualche conseguenza sul
suo modo di essere in Europa, sulla sua incidenza nella situazione
bloccata delle politiche europee. La questione della immigrazione, da
tempo diventata il terreno su cui si misurerà la nostra capacità di
ripensare non solo i rapporti internazionali, ma la nostra idea di ciò
che stiamo diventando, che siamo già diventati. E infine, ma non alla
fine, la questione delle uguaglianze, ovviamente connessa alle prime
due. Come è possibile immaginare una riforma delle istituzioni che
coinvolga davvero l’elettorato, senza presupporre un nuovo patto di
cittadinanza che modifichi le condizioni di vita di una sua parte, ormai
spinta nel cono d’ombra del disagio sociale e dunque
dell’insignificanza politica? Lo voglio ripetere per evitare equivoci.
Queste non sono, certo, le questioni che un referendum costituzionale
debba, o possa, porre a tema dei propri quesiti. Ma le questioni che ne
costituiscono l’orizzonte e che gli conferiscono significato. Che senso
ha risparmiare cinquanta milioni, se non si lascia intravedere dietro
questi provvedimenti qualcosa di più, la volontà autentica di
coinvolgere l’intera cittadinanza in una svolta adeguata alle sue
esigenze?