Repubblica 23.10.16
I tabù del mondo
Per sentirci liberi sogniamo una vita animale
Diversi
psicotici, in un delirio di trasformazioni, immaginano di diventare un
gatto o una belva feroce È una forma di riscatto da prescrizioni
mortificanti, realizzata aspirando a un’esistenza priva dei sensi di
colpa, di inadeguatezza e di vergogna visti come specifici della
dimensione patetica di un essere umano
Un mio paziente pensava di
essere un puma. Rifiutava di sedersi ed emetteva suoni gutturali. La sua
infanzia era stata dominata da un padre pedagogo e sadico
di Massimo Recalcati
L’antropocentrismo
dell’Occidente ha situato l’animale come un essere vivente inferiore a
disposizione dell’uomo. Oggi questa superiorità di una specie (quella
umana) su di un’altra (quella animale) viene denominata “specismo”.
Nello stesso termine “animale” si accomunano, non a caso, esseri viventi
assai diversi tra loro — un gambero non è un cane; un gatto non è un
rinoceronte — accomunati dal solo statuto di inferiorità rispetto alla
specie umana. La vita dell’animale resta un tabù inaccessibile per
quella umana: mentre la vita animale è vita piena, regolata dalla forza
infallibile dell’istinto, quella umana appare come una vita ferita,
limitata dalle leggi della Cultura, separata irreversibilmente dalla
Natura.
Diversamente da quello che l’ideologia “specista” ritiene,
la vita umana è afflitta da una menomazione più che da un primato. La
vita animale è vita senza vergogna, disinibita, priva di Legge e di
senso di colpa. Quella umana è invece vita vincolata, sottomessa,
assoggettata alle regole sociali, alienata nel linguaggio, dominata dal
senso di colpa e dalla vergogna. Per liberarsi da queste costrizioni
inevitabili che la Civiltà impone, perversi e psicotici — in modo
diversi — hanno immaginato un ritorno regressivo alla vita animale come
forma di vita non ancora corrotta dalla Legge. La vita animale incarna
l’ideale di una vita senza costrizioni e pienamente libera.
Un mio
paziente psicotico, per esempio, in un delirio di trasformazione,
sentiva di essere un puma. Talvolta anche in seduta rifiutava di sedersi
per muoversi a quattro zampe emettendo versi gutturali. La sua vita era
stata dominata da un padre pedagogo, chiaramente sadico, che gli aveva
imposto diete ferree e esercizi ginnici e cognitivi di ogni specie,
obbligandolo a fare il bagno indossando le mutande. La mortificazione
impostagli dalla follia educativa del padre viene riscattata attraverso
il delirio di incarnare la vita di un animale che rifiuta ogni forma di
limite.
È anche il caso di Dennis Avner, meglio noto come
l’uomo-gatto, suicidatosi recentemente all’età di 54 anni. Il suo corpo
era tatuato da capo a piedi. Si era sottoposto a innumerevoli interventi
chirurgici per farsi impiantare artigli, baffi e denti. Lenti a
contatto verdi e infiltrazioni di cortisone nel volto dovevano rendere
la sua immagine più simile a quella di un gatto o di una tigre. Diventò
un personaggio disperato, ma molto apprezzato dai media americani
(sic!).
Il gatto, la tigre, il puma sono incarnazioni di una vita
che si vorrebbe svincolata dal senso di colpa, dai sentimenti di
vergogna e di inadeguatezza che costituiscono la dimensione umanamente
patetica della nostra vita. L’animale sembra assomigliare a una sorta di
Dio che non necessita di nulla se non della pienezza di una vita che
obbedisce alla sola legge dell’istinto. L’animale esprime la forza di
una vita piena di vita, mentre la nostra vita è sempre mancante di vita.
La
posizione di Freud è complessa. Per un verso egli si oppone alla
tradizione antropocentrica che da Aristotele, passando da Cartesio,
giunge sino ad Hegel e ad Heidegger e che, in modi differenti, ha
considerato l’animale come una vita priva di anima o di mondo, come un
puro ingranaggio istintuale. Freud intende abbattere la frontiera
ideologica dello specismo restando invece fedele alla lezione di Darwin:
la vita umana non ha origini celesti ma scaturisce da una evoluzione
della vita animale. Questa tesi spodesta ogni pretesa narcisistica di
stabilire una differenza sostanziale tra vita umana e vita animale.
Nondimeno è lo stesso Freud che, pur ricordandoci il fondo animale della
vita umana, definisce il processo di umanizzazione della vita come
effetto di una violenza simbolica imposta dal programma della Civiltà.
L’azione della Legge genera infatti il trauma del peccato e della colpa
che non esistono nel mondo animale. In questo egli si ricollega alla
tradizione del pensiero dialettico, da Hegel a Kojève: l’umanizzazione
della vita suppone il sacrificio simbolico dell’animale. Diversamente da
quello che l’uomo-puma o l’uomo-gatto perseguono nel loro delirio, alla
vita umana è preclusa l’infallibilità dell’istinto. L’uomo è un animale
ferito, malato di linguaggio, esiliato dalla natura, morente. Solo gli
uomini godono nel torturare o nel torturarsi. Solo gli uomini possono
porre il Male come una meta pulsionale. Nel mondo animale non esiste né
sadismo, né masochismo.
Ma è proprio perché la vita umana ha
perduto l’immediatezza in cui vive la vita animale che può interrogare
il mistero della vita. Un’altra profonda differenza tra il mondo animale
e quello umano è che nell’animale né la vita né la morte possono
assumere la dimensione del mistero. L’animale, come un Dio ineffabile,
non manca di nulla, coincide con la propria vita, è, diceva Leopardi,
nell’assoluto presente della vita e della morte. Diversamente l’uomo
abita l’apertura del mondo interrogandone il senso. Il suo essere non
coincide mai con se stesso. Prega, scrive, genera arte, filosofia e
scienza, guerra e distruzione perché non può venire a capo di quel
mistero che invece per l’animale non esige alcuna ricerca. Non è un caso
che il punto di massima prossimità tra l’uomo e l’animale sia legato
alla sofferenza. L’animale sofferente che si rivela inerme e malato è
più umano dell’animale che si mostra nella sua assoluta presenza.
Assomiglia alla nostra mancanza, la ricorda come fondo comune che
nessuna prepotenza antropocentrica può cancellare.