domenica 23 ottobre 2016

Repubblica 23.10.16
Ruggero Pierantoni
“Un po’ scienziato, un po’ artista sono comunque un cervello in fuga”
Studi dalle suore poi il sanatorio, quindi biologia e ricerche in diverse parti del mondo. Il biofisico si racconta, fra romanzi e amore per la pittura
colloquio con Antonio Gnoli

CALVINO
Si entusiasmò per un mio saggio. Ma poco dopo la sua morte, a un convegno misi in dubbio che avesse conoscenze di ottica Si avvicinò sua moglie e mi diede due ceffoni

LA BIOGRAFIA
Ruggero Pierantoni nasce a Roma nel 1934. È un biologo, studioso di percezione acustica e visiva, ricercatore presso l’Istituto di Cibernetica e Biofisica del Cnr. È autore di numerosi saggi e anche di un romanzo

LA FAMIGLIA
Nasce a Roma, a tre anni si trasferisce in Africa. Il padre, dirigente della Banca di Roma, porta la famiglia prima ad Asmara, poi a Massaua e infine al Cairo. Dopo quindici anni torna in Italia e trascorre un periodo in sanatorio per aver contratto la Tbc.

GLI STUDI
S’iscrive a ingegneria ma poi cambia percorso e prosegue gli studi in scienze biologiche. Si specializza in scienza della visione e si laurea con una tesi sperimentale, richiesta dal suo maestro e supervisore Kostas Spiropolulos: isolare un solo nervo sciatico di una rana

LA SCIENZA
Fa ricerca in Florida, al Max Plank Institut di Tubinga, in California, in Canada, poi in Pennsylvania e al Cnr.
Insegnante universitario in Italia e all’estero, dimostra che uno scarafaggio riesce a ricordare che in una vita precedente alla metamorfosi è stato una larva.

I SAGGI
Autore di numerosi saggi tra cui L’occhio e l’idea, Forma Fluens, La trottola di Prometeo, Uno scherzo fulmineo, Vortici, atomi e sirene, scrive anche un romanzo, Segesta, domani pubblicato da Bollati Boringhieri nel 1990

Era da un po’ che non vedevo Ruggero Pierantoni. Il nostro ultimo incontro, abbastanza casuale, avvenne in Puglia, in uno di quei festival culturali che ormai, come le partite di calcio estive, si tengono ovunque in Italia. E Ruggero aveva quel solito piglio da pensatore originale e ribelle, con la moglie — insegnante di matematica — che pazientemente cercava di imbrigliarne la foga. Oggi ha 82 anni, compiuti un paio di settimane fa. Gira in casa con dei pantaloni corti e una maglietta aderente che gli delinea la pancia. È leggermente ingrassato e gli leggo la tristezza sul viso di chi ha visto morire la moglie dopo una sofferta malattia. «Quarant’anni di matrimonio, un’infinità di viaggi e ora eccomi qui, un po’ sperso dietro i miei pensieri. Ma non ne voglio parlare », commenta asciutto. Pierantoni non si sa come definirlo. Uno scienziato, certo. Ma anche un meraviglioso affabulatore che scrive libri strani dedicati al movimento, alla visione, all’arte, ai fulmini, alla misura. Ha girato il mondo e vive a Genova.
Come cervello sei sempre stato in fuga.
«Sono stato dopo la laurea due anni in Florida, poi due anni e più al Max Plank Institut di Tubinga. Quattro anni in California, dove improvvisamente mi sono sentito vecchio. Poi è cominciata l’avventura canadese, due anni circa a Calgary, e a Toronto, un posto delizioso, civile. Qui ho imparato a occuparmi di percezione. Poi sono passato all’università della Pennsylvania, per un quadriennio ».
Dicevi vecchio, per fare cosa?
«Per occuparmi di una cosa affascinante, microscopia elettronica. A Tubinga avevamo macchinari che ingrandivano quattrocentomila volte un oggetto: la cellula dell’occhio di una mosca, per esempio, o il suo cervello. Vedere in grande è un’esperienza unica. Scoprii che non ce la facevo a stare dietro alla velocità pazzesca con cui la tecnologia progrediva. Ero già vecchio a 45 anni. Per questo, pur essendo un biofisico, cioè uno che sostanzialmente fa ricerca, ho cominciato a occuparmi di libri e di storie».
Da dove vieni?
«Sono nato a Roma nel 1934. Padre dirigente della Banca di Roma. Avevo tre anni quando ci trasferimmo in Africa. Ad Asmara. Poi Massaua e infine al Cairo. Vi ho trascorso 15 anni della mia vita».
Felici?
«Con la ragione del dopo direi di sì. La vita era sufficientemente differenziata. E l’offerta religiosa ricca. Non si scannavano come oggi. Dalla finestra di casa nostra vedevo le due torri della chiesa copta, i due minareti della moschea, la guglia della chiesa protestante, il blocco basso della sinagoga e mi piaceva che fosse così ».
Andavi a scuola.
«Dalle suore e al ritorno mi fermavo in un “tucul” dove qualcuno mi dava da mangiare la burgutta, il pane cotto sulla pietra infuocata. Una suora mi insegnò a nuotare nel Mar Rosso a pochi metri di distanza dalle pinne dei pescicani. Le suore mi hanno insegnato a scrivere e a leggere. Le suore mi hanno curato per quattro anni in un sanatorio».
In che periodo ci sei stato?
«Tornammo dall’Africa nel 1948. Girammo l’Italia: Tivoli, Fidenza, infine Novi Ligure dove scoprii di aver contratto la Tbc biapicale. Avevo 18 anni fui spedito al sanatorio di Pra Catinat, in Piemonte. Lo fece costruire Edoardo Agnelli, il padre di Gianni, alla fine degli anni Venti. Dall’alto di quasi duemila metri si dominava la Val Chisone».
Com’era la vita in sanatorio?
«Monotona. Una specie di “Montagna incantata dei poveri”. Eravamo solo maschi. Qualche anno prima le donne erano state trasferite ad Andalo nel Trentino. E la ragione la puoi intuire: una quantità incredibile di storie sentimentali, di gravidanze e aborti aveva reso la convivenza qualcosa di ingestibile per l’istituto».
Come scandivi una giornata?
«Comincerei dalla camera dove dormivo: passai da una a otto letti a una a tre e infine a due. Fu un sollievo. C’era una regolarità asfissiante: colazione al refettorio; le ore passate all’aperto sulla sdraio. La funivia che portava tardi i giornali. Le discussioni dopo pranzo tra i “tubi”, così erano chiamati i tubercolosi. I quali spesso si riunivano per regioni di provenienza e cantavano le loro canzoni. Guardavo ripetersi questa scena con immensa malinconia».
Tu che facevi?
«Leggevo, tanto. E preparavo gli esami di ingegneria cui mi ero iscritto. Tra le cose notevoli di quegli anni, a parte l’aggressione violenta che subii da parte di un paziente, ci fu l’addio della mia fidanzata. Si stancò di aspettarmi. Mollai ingegneria e proseguii i miei studi in scienze biologiche».
Ti sei a un certo punto specializzato in scienza della visione. Perché?
«Forse inconsciamente voleva essere una rivalsa alla mia ambliopia. Sono cieco di un occhio fin dalla nascita. Diciamo che la corteccia visiva, per quella parte è come morta».
E hai pensato che vedere in grande, con un bel microscopio, fosse la soluzione?
«Ho pensato che i dettagli fossero importanti. Mi laureai con una tesi sperimentale e difficile: isolare un solo nervo sciatico di una rana. Se pensi che sono 300 micron di diametro capisci le difficoltà cui vai incontro».
Era una tesi un po’ bizzarra.
«Non disdegno il bizzarro, ma in questo caso fu per l’insistenza del mio supervisore: Kostas Spiropolulos. Lui è stato quello che mi ha insegnato un sacco di cose. Di solito lavorava all’istituto oceanografico del principato di Monaco e aveva una fidanzata turca bellissima. Si trasferì a Chicago come direttore del dipartimento di biofisica. E qui lo vidi un’ultima volta».
Quando?
«La sera in cui partii si presentò all’Istituto e mi disse non posso non accompagnare per l’ultima volta il mio allievo preferito. Poi durante il viaggio in taxi verso l’aeroporto cambiò umore. Me ne sto andando, mi confidò. Dopo tutto quello che nella vita si era bevuto gli era esplosa una cirrosi irreversibile. Morì tre mesi dopo quel nostro ultimo incontro. Fu in tutti i sensi un amico, un maestro, un compagno straordinariamente divertente».
Hai spesso fatto convivere i tuoi interessi per la scienza con quelli per l’arte. Eppure non sei né uno storico dell’arte né un critico e neanche uno storico della scienza.
«È imbarazzante indicare quante cose io non sono. Diciamo in modo aulico che scienza e arte possono incontrarsi. La fisica quantistica puoi vederla come una forma d’arte e un quadro di Boccioni o di Balla come il corollario di un pensiero scientifico. Ma alla fine lo scienziato fa il suo mestiere e l’artista anche. Non confonderei i linguaggi. Non penso minimamente che l’interdisciplinarietà sia il destino del nostro sapere. A volte l’interdisciplinarietà è mancanza di disciplina. Non va bene».
Cosa pensi del linguaggio scientifico?
«Sono pochissimi gli articoli scientifici che non annoiano. Lo scienziato ha abdicato a qualsiasi possibilità di espressione letteraria. Io ho provato a scrivere articoli scientifici rigorosi inserendo dei dati ludici però ho sempre trovato grandissima difficoltà perché il sistema è rigido. Uno degli articoli più importanti per me dopo due anni e mezzo di Max Plank l’ho chiamato Dentro la cabina di pilotaggio della mosca che era sul sistema visivo della mosca. Bene, questo titolo che poi è passato fu oggetto di una controversia durata mesi fra la casa editrice e il Max Plank Institut».
Hai provato a tenere insieme i diversi linguaggi.
«L’ho fatto senza la pretesa di sovrapporli. Quando studiavo il Codice delle acque di Leonardo era chiaro che uno sguardo a quello che accadeva in pittura aveva senso».
A cosa ti riferisci?
«Potrei portarti mille esempi. Pensa al Trittico Portinari di Hugo van der Goes. Un dipinto famoso per la sua bellezza che è agli Uffizi. In primo piano si vedono due vasi: uno con degli iris e l’altro con due fiori in un vaso trasparente pieno a metà di acqua. Ora a parte la bellezza esecutiva, l’artista non aveva nessuna idea delle leggi della rifrazione, non sapeva che cosa fa un raggio di luce che dall’aria passa al vetro e all’acqua. Ciò nonostante crea un oggetto con tutte le regole ottiche, come se conoscesse il coefficiente di rifrazione».
Cosa ne concludi?
«Che l’artista ottiene una rappresentazione aderente alla fenomenologia anche senza conoscere le leggi fisiche che determinano quel fenomeno. E questo lo puoi ripetere per centinaia di casi analoghi: si può disegnare una figura umana meravigliosamente senza avere nessuna nozione di anatomia o un panneggio senza sapere le qualità meccaniche dei tessuti».
Hai sempre qualcosa di bizzarro nel tuo repertorio.
«Tu insisti, ma di bizzarrie ne ho prodotte pochissime. La ricerca che mi ha dato una certa fama fu dedicata a rispondere a una domanda ineludibile: può uno scarafaggio ricordarsi che in una vita precedente alla sua metamorfosi è stato una larva? Dopo quattro anni ho potuto dire sì. Lo ricorda».
Forse è la prova scientifica che Kafka non poteva avere?
«Ma lui l’ha pensata nella sola maniera che gli era confacente: attraverso la letteratura».
Hai scritto anche dei romanzi?
«Uno in particolare: Segesta domani ».
Te ne sei pentito?
«Perché me lo chiedi?»
Forse perché non parve una prova letteraria imprescindibile.
«Ma io non ne sono affatto pentito. Anche se ne riconosco i limiti».
Quali?
«Be’ non credo di avere una tecnica professionale. Costruire un dialogo non è semplice. Non è facile essere narrativamente credibili. Mi sono reso conto che non basta l’onestà, la dedizione, la genuinità dell’emozione per dichiararsi un buon scrittore».
Eppure hai una scrittura viva, mossa, elegante senza essere incipriata.
«Sono arrivato a un punto della mia scrittura per cui so cosa sono in grado di fare. So scrivere un saggio in una forma che non è noiosa. Ma quando ho cercato di dare vita a un’azione con dei personaggi mi sono reso conto che agivano come marionette e parlavano come altoparlanti».
Ma allora perché l’hai pubblicato?
«Sai, di tutto questo mi sono reso conto successivamente. Il romanzo, del resto, piacque molto a Giulio Bollati che decise di pubblicarlo».
Che ricordo hai di lui?
«Di un uomo molto colto. Signorile per la squisitezza e pazienza che dimostrava. Orientale per l’impenetrabilità. La sua stagione più feconda fu all’Einaudi, anche se l’altro Giulio a un certo punto se ne sbarazzò. Come i sovrani che vedono minacciato il trono così Giulio Einaudi sentì il proprio insidiato da Bollati».
Che idea hai di Giulio Einaudi?
«Un signore molto cinico e intelligente. Dotato indiscutibilmente di un grande fiuto editoriale, ma umanamente non era il massimo della simpatia».
A proposito di Einaudi e di scrittori che hanno avuto una curiosità verso la scienza c’è Italo Calvino. Lo hai conosciuto?
«Non personalmente. Ma ti racconto questo episodio. Lui recensì in maniera entusiastica un mio libro, L’occhio e l’idea, poi un paio di anni dopo la sua morte fu organizzato un grande convegno al quale partecipai con una relazione su Calvino e l’ottica. A un certo punto mi permisi di dire che nei racconti di
Sotto il sole giaguaro c’erano alcune incongruenze riguardo al Messico, dove peraltro lui era stato. Finito il mio intervento durante l’intervallo mi si avvicinò Esther Calvino, la vedova. Si alzò sulla punta dei piedi mollandomi due sonori ceffoni ».
Il motivo?
«Ancora oggi stento a capirne la ragione. Forse il fatto che avessi messo in dubbio la tenuta logica di quel libro. Non lo so. Comunque il giorno dopo ricevetti un biglietto su cui c’era scritto: “Cobra verde ti saluta”. Era lei, Chicita. Fu un modo originale per scusarsi dell’eccessiva intemperanza».
Cosa ti resta di Calvino?
«A parte i suoi libri quasi sempre all’altezza della sua fama, mi resta un vago senso di non detto, di chiuso, di scontroso, di “dispettoso”. Si può essere grandi e fallire umanamente.
Cosa vuol dire fallire?
«Devi essere proprio sfigato per fallire in tutto. Nelle nostre società il fallimento è complementare al successo. Come reagisco? Aspetto, come tutti gli insicuri, che vengano tempi migliori».
Meglio Dio o l’evoluzionismo?
«La nostra è una macchina biologica vecchia di due milioni di anni, che risponde e si trasforma con gli stimoli ambientali. Il requisito per cui Dio esiste è che ci devi credere. Nell’evoluzione c’è poco da credere. Basta andare alle Galapagos e misurare il becco dei fringuelli. Se i conti non tornano, vai di nuovo e misura ancora, magari con nuovi strumenti. È la scienza, bellezza ».