sabato 22 ottobre 2016

Repubblica 22.10.16
La strada per firmare la pace tra politica e giustizia
Il primo passo sarebbe tornare alla centralità del dibattimento in aula
di Giuliano Pisapia

LA MANOVRA finanziaria, gli abbracci di Obama, il libro di Icardi… Com’è ovvio che sia, le pagine dei giornali registrano i fatti, più o meno importanti dell’ultima ora e li consumano in fretta, stile fast food. Sarà perché sono un sostenitore dello slow food, mi pare che nei giorni scorsi sia stata persa un’occasione importante. Il fatto — anzi, i fatti — sono le recenti assoluzioni di Ignazio Marino e di Roberto Cota. L’occasione persa è quella di partire da quei fatti per aprire finalmente un dibattito sereno e costruttivo sui rapporti tra politica e giustizia. Invece è andato in scena il solito, logoro copione: la “Politica” da una parte, la “Giustizia” dall’altra, come in un tiro alla fune che con la giustizia e la politica non ha niente a che fare. L’occasione era buona: si tratta di sentenze di primo grado, che, se impugnate, potrebbero avere esiti diversi in appello o in Cassazione; di procedimenti penali che riguardano imputati appartenenti a partiti contrapposti; di procedimenti che non sono stati la causa delle dimissioni del Sindaco di Roma e della decadenza del Presidente della Regione Piemonte. Il che avrebbe reso più facile soffermarsi su princìpi, norme e regole che dovrebbero valere per tutti.
MA CHE, invece, spesso si trasformano in strumenti per attaccare l’avversario, non sulla base della realtà processuale, ma sulla base dell’appartenenza o della convenienza politica. Cerchiamo allora di mettere da parte le convenienze e di partire dai principi che devono guidare i nostri ragionamenti: la presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, l’obbligatorietà dell’azione penale, la distinzione dei ruoli tra chi è “parte processuale” (Pm e avvocati) e chi ha il delicato e difficile compito di decidere sull’innocenza o la colpevolezza dell’imputato.
A differenza di chi sostiene l’accusa o è impegnato nella difesa, i giudici, lo dice la nostra Costituzione, debbono essere “terzi e imparziali” e decidere per la condanna “al di là di ogni ragionevole dubbio”, solo se vi sono prove certe o indizi “gravi, precisi e concordanti”. Il giudice deve assolvere l’imputato non solo se “manca la prova della sua colpevolezza” ma anche se “la prova è insufficiente o contraddittoria”. Pur con la prudenza che deve avere chiunque non conosca le carte processuali, si può dire che, nei due processi citati, l’accusa e la difesa hanno fatto il loro dovere: gli imputati si sono difesi nel processo, i giudici si sono dimostrati autonomi e indipendenti e non si sono fatti influenzare da niente e nessuno.
Eppure, ben pochi sono stati i commenti pacati. Anzi, le opposte vicende sono state l’occasione per dare fuoco alle polveri di una guerra mai terminata. Perché? Sarà un motivo di cultura politica; sarà una logica che induce a dimenticare che le garanzie debbono valere per tutti, e non solo per gli amici; sarà perché si antepone la propaganda alla ragionevolezza; sarà per opportunismo o per convenienza, ma è ora di uscire da una situazione che certo non fa bene alla democrazia, alla giustizia e alla politica (o meglio: alla buona politica). Val la pena, allora, di soffermarsi, ancora una volta, su temi che riguardano il passato, il presente e il futuro della nostra collettività. Quando si parla di persone indagate (il discorso vale evidentemente per tutti), l’iscrizione al registro degli indagati — che dovrebbe essere riservata e coperta dal segreto e di cui, invece, il diretto interessato viene spesso a sapere dalla lettura dei giornali — per molti è già indice di futura condanna (il responsabile della fuga di notizie, al contrario, rimane quasi sempre ignoto). Tale “pregiudizio” si rafforza in presenza di un’informazione di garanzia e, ancor di più, di rinvio a giudizio. E così, la presunzione di innocenza, sancita dalle Convenzioni internazionali, si trasforma in presunzione di colpevolezza e, spesso, diventa un’arma per attaccare l’avversario.
Troppi, ad eccezione dei sempre più rari garantisti non a corrente alternata, dimenticano, o fanno finta di ignorare, che l’iscrizione nel registro indagati è un obbligo di legge in presenza di un esposto, di una denuncia, di una notizia di reato, se non manifestamente infondate. Il Pubblico Ministero deve fare le opportune verifiche per poi potere, sulla base delle indagini effettuate, chiedere l’archiviazione o il rinvio a giudizio. Quando sono necessari determinati atti che prevedono la presenza del difensore o di un consulente tecnico — ad esempio in caso di perizia, di perquisizioni, di interrogatori degli indagati — deve (non “può”, ma deve) essere notificata l’informazione di garanzia che, lo dice la parola stessa, è posta a tutela dell’interessato e del diritto “inviolabile” di difesa (art. 24 Cost.). Il difensore può così svolgere indagini difensive, chiedere al pubblico ministero di sentire testimoni, presentare memorie. Ebbene, malgrado sia evidente che tutto ciò è finalizzato a verificare se sussiste un reato e se vi sono elementi sufficienti per una richiesta di rinvio a giudizio, iniziano, se si tratta di un politico (ma non solo) le richieste di dimissioni. Si alimentano accuse anche infamanti, si ipotizzano fatti spesso del tutto infondati. Inizia quella gogna mediatica che travolge e stravolge la vita delle persone e delle loro famiglie.
Che fare per evitare, o quantomeno limitare, questa situazione? Come è possibile uscire da una perversione che danneggia la dignità delle persone e della giustizia? Come fare per evitare che vengano, con la pubblicazione di atti che non dovrebbero essere pubblici (anche a tutela delle indagini) — infangate, umiliate, distrutte, donne e uomini che, in molti casi, non sono neppure indagate o che riguardano la vita privata e che nulla hanno a che vedere con i reati ipotizzati? Il tutto aggravato dal fatto che possono passare mesi o anni prima che vi sia un rinvio a giudizio o una sentenza, prima che si sappia se quella persona è colpevole o innocente.
Un primo passo sarebbe quello di tornare alla centralità del dibattimento. In passato — i meno giovani lo ricordano — l’attenzione dei media, e quindi dei cittadini, si concentrava soprattutto sulla svolgimento del processo, quando era possibile conoscere non solo le tesi dell’accusa ma anche quelle della difesa. Le indagini erano più riservate e il segreto istruttorio più rispettato. Di questo si sta occupando il Parlamento e alcuni Procuratori della Repubblica sono già intervenuti per evitare che, nelle ordinanze di custodia cautelare (ormai diffuse anche via internet), siano riportati colloqui, telefonate o fatti non processualmente rilevanti, soprattutto se riguardano la vita privata. Certo c’è il problema dei tempi lunghi dei processi, e quindi del diritto di sapere in tempi “ragionevoli” se un indagato o un imputato è colpevole o innocente, e su questo bisogna impegnarsi per una giustizia più celere e di un’informazione basata sulla realtà e non sulle ipotesi e sui sospetti. Servono più risorse, servono leggi chiare e utili, non leggi, come in passato è accaduto, che allungano i tempi della giustizia e tendono ad ostacolare l’accertamento della verità. Vi sono proposte di legge che vanno in tale direzione. Già sono stati fatti, o si stanno facendo, passi avanti con il processo telematico, con i giudizi alternativi, con la depenalizzazione (che non significa impunità ma sanzione immediata e spesso più efficace), col prevedere, ad esempio, tempi certi dal termine delle indagini alla richiesta di archiviazione o di rinvio a giudizio. Evitare le polemiche strumentali aiuta e rafforza la possibilità di approvare leggi ampiamente condivise.
Sarebbe poi ora che, in presenza di fughe di notizie su atti riservati o coperti da segreto, si facciano i dovuti accertamenti per individuare i responsabili e si prendano gli opportuni provvedimenti, quantomeno disciplinari. Anche l’ordine dei giornalisti ha, in questi casi, un compito decisamente importante perché il diritto-dovere di informare non può trasformarsi nel diritto di non rispettare la legge o la deontologia. Infine, e questa è la maggiore responsabilità della politica, o meglio di alcuni politici, non si strumentalizzi la giustizia per conflitti interni o esterni ai partiti. Se ogni partito, in presenza di un procedimento giudiziario, si regolasse non sulla base delle convenienze ma di regole precise, previste possibilmente da uno statuto, forse non finirebbero le speculazioni ma quantomeno diminuirebbero le polemiche inutili e sterili che incrinano sempre di più la credibilità della politica. Senza dimenticare che vi sono fatti, condotte, comportamenti, che pur non avendo rilevanza penale, sono, e possono essere, altrettanto gravi (le eventuali dimissioni sono, in questi casi, più o meno opportune, e non riguardano il diritto penale ma la coscienza del singolo e della collettività).
Un’ultima considerazione che riguarda la presunta, o secondo alcuni effettiva, subalternità della politica nei confronti della magistratura. Indubbiamente vi sono stati momenti in cui questo è accaduto, anche a seguito di inchieste giudiziarie che hanno fatto emergere una illegalità diffusa. Ma non bisogna generalizzare. La responsabilità penale è personale. Vi sono stati tempi in cui la magistratura era subalterna alla politica. Vi sono stati periodi in cui è avvenuto il contrario. Proprio perché politica e magistratura hanno compiti e ruoli diversi, è fondamentale, per una democrazia matura, che sia rispettata l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, ma è altrettanto fondamentale che si rispetti l’autonomia e l’indipendenza della politica. Il che non impedisce di criticare le sentenze o le leggi, ma senza pregiudizi e nel rispetto dei diversi ruoli.