giovedì 20 ottobre 2016

Repubblica 20.10.16
Io, Daniel Blake
Ken il rosso sempre più arrabbiato tra disoccupati e web
di Roberto Nepoti

IL REGISTA
Ken Loach, classe 1936, regista della working class. Tra i film Piovono pietre, Terra e libertà. Palma d’oro a Cannes per Il vento che accarezza l’erba (2006) e Io, Daniel Blake (2016), il Pardo d’onore a Locarno, il Leone alla carriera a Venezia e l’Orso d’oro a Berlino

PALMA d’oro a Cannes, il nuovo film di Ken Loach arriva ai tempi supplementari nella filmografia del regista inglese. “Ken il rosso”, infatti, aveva deciso di chiudere bottega. Però l’indignazione per come stanno andando le cose in Gran Bretagna, e nel resto dei paesi tecnocratici, lo ha convinto a realizzarne un altro capitolo, che condensa in forma di epitome tutta la sua poetica e la sua militanza cinematografica. Il Daniel Blake del titolo è un carpentiere di Newcastle che, all’alba della sessantina, si ritrova senza la possibilità di guadagnarsi la vita a causa di un problema di salute. Dopo un arresto cardiaco, il medico gli ha proibito di lavorare e Daniel si rivolge all’assistenza pubblica (appaltata dallo Stato a società private che hanno tutto l’interesse a non assegnare sussidi) per ottenere il riconoscimento dell’invalidità. Non sa a cosa va incontro. Maltrattato e umiliato, l’uomo è preso in una trappola burocratica infernale: dovrà iscriversi alla disoccupazione e cercare lavoro, in attesa che la sua domanda sia respinta per poter fare ricorso. Nell’attesa Daniel prende le difese di Katie, madre nubile di due bambini, che come lui non riesce a ottenere un sussidio ed è praticamente alla fame.
Nella sua avventura kafkiana, un ostacolo quasi insormontabile si rivela l’informatica, autentico strumento di dissuasione di massa usato dal potere per fregare meglio i proletari digiuni di tecnologia. Per lui, che non conosce il web e non sa usare un mouse, compilare una domanda è impresa impossibile: e il film ce lo mostra in scene tinte di amaro humour, in cui anche spettatori meno inesperti del protagonista potranno riconoscersi. Scritto dal fedele Paul Laverty Io, Daniel Blake è un film nobilmente indignato, impegnato e frontale: forse, fino all’eccesso. Senza tornare sul discorso di una Palma d’oro più o meno meritata, bisogna riconoscere che Loach usa un linguaggio quasi elementare; che, tuttavia, risponde in pieno al suo progetto. Lui dichiara di voler osservare i personaggi con empatia, come da un angolo dell’ambiente in cui questi si trovano: mantenendo la giusta distanza senza però perdere la capacità di emozionarsi. E così è.
Certo, si possono preferire film come Due giorni, una notte dei Dardenne o La legge del mercato di Brizé, altrettanto politici ma che coniugano l’impegno con un linguaggio più personale. Ed è anche vero, in qualche misura, che Loach si lascia prendere dallo scrupolo dimostrativo, viaggiando sul crinale scivoloso del didatticismo. Però il suo cinema resta dannatamente efficace; inoltre conserva una dimensione emotiva che gli altri non hanno (vedere, per tutte, la scena in cui Katie e Daniel vanno a cercare cibo presso un’associazione di carità).
La cosa che qui soddisfa meno riguarda, piuttosto, la sceneggiatura di Laverty. Perché le storie del maturo Daniel e della giovane Katie vorrebbero rispecchiarsi l’una nell’altra: come a mostrare l’inferno del proletariato post-moderno attraverso due ottiche differenti, ma complementari. E invece prendono direzioni centrifughe, viaggiando in parallelo e rincorrendosi lungo un montaggio non sempre convincente.