il manifesto 20.10.16
Loach e quel che resta della classe operaia
Al
cinema. Da domani nelle sale «Io, Daniel Blake», il film di Ken Loach
palma d’oro a Cannes. Il racconto dei nuovi poveri della società nella
storia emblematica del protagonista, un falegname che ha subito un
infarto e vorrebbe il sussidio
di Giona A. Nazzaro
C’è
un’immagine di Ken Loach che a Cannes affiora sempre alla memoria non
appena la presenza di un suo nuovo film è annunciata in concorso. Il
regista inglese, seduto in un bar dalle parti del porto, con la sua
squadra di collaboratori, avvolto da una nube di fumo quasi
impenetrabile (all’epoca si fumava ancora nei locali pubblici), a
seguire una partita di calcio su un televisore. Birra, urla, tifo. E i
francesi che prendono in giro l’inglese perché la sua squadra è sotto di
qualche gol. A ben vedere, il precipitato del mondo di Loach, lontano
dalle discussioni cinefile e politiche. E quella sera, forse il suo film
più bello. E ogni qual volta i suoi lavori negli ultimi anni parevano
girare a vuoto, l’immagine di quella sera lontana si ripresentava come
segno di un cinema che il regista inglese, pur avendo sempre il cuore al
posto giusto, non riusciva più a fare.
E invece su questo nuovo
film con il quale ha vinto la palma d’oro lo scorso maggio – Io, Daniel
Blake – e che arriva domani nelle sale italiane, l’attenzione scatta
subito dopo i titoli di testa, quando parte uno dei migliori dialoghi di
sempre del cinema loachiano, quell’inconfondibile stridore fra umorismo
disperato e indignazione, l’attenzione scatta subito e resta puntata
saldamente sino alla fine del film. Lui è Daniel Blake. Un falegname che
ha subito un infarto e vorrebbe il suo sussidio. La cosa difficile è
passare attraverso la società paramedica (statunitense) cui il governo
inglese ha appaltato la gestione dei lavoratori con disabilità.
Loach
è chiarissimo. Il sistema non è dalla parte dei lavoratori. Il sistema è
dalla parte di se stesso. E questo si sapeva. Ci mancherebbe. Daniel,
molto avanti con gli anni, deve compilare moduli on line, lui che non ha
nemmeno un computer. E ovviamente il modulo scade sempre prima che lui
riesca ad inviarlo. Le addette all’ufficio non possono e non devono
aiutare i richiedenti in difficoltà. La Thatcher sarà pure morta, ma il
suo sistema è vivo e vegeto. Daniel si trova quindi costretto a
dimostrare di avere cercato lavoro ma, se cerca lavoro, non può avere
diritto al sussidio.
Un comma 22 neoliberista. Loach ritrova il
colore ambientale del suo cinema settantesco. I movimenti di macchina
essenziali e le inquadrature attente a contestualizzare il conflitto
nell’inquadratura con il fuori campo; una vividezza, finalmente di nuovo
capace di graffiare, dovuta alla precisione con la quale il linguaggio
diventa parte integrante della tessitura sonora del film, sono gli
elementi formali che segnalano di una urgenza ritrovata. Il rapporto che
Daniel ha con il suo vicino di casa che non ne vuole sapere troppo di
differenziata dei rifiuti e che s’inventa, in perfetta coerenza
neoliberista, un commercio di sneaker con un cinese innamorato perso di
calcio britannico, coglie alla perfezione la riorganizzazione dal basso
di ciò che resta della classe operaia britannica e del proletariato
ormai privo di orientamento che non sia la sua mera sopravvivenza.
La
presenza di Rachel, madre con figli a carico alla ricerca di un lavoro,
pur inserendosi in un’idea di melò che ha in Chaplin e De Sica le sue
punte più alte, offre a Loach la possibilità di tratteggiare con
agghiacciante precisione il quadro di una nuova e atroce povertà.
Costretta a servirsi delle cosiddette «food bank», ossia super market
gestiti da volontari dove vengono distribuiti cibo e beni di prima
necessità, tormentata dalla fame, Rachel letteralmente divora della
frutta in scatola prima di iniziare a singhiozzare sconsolata,
tramortita dalla vergogna per la sua condizione. Un momento altissimo,
quasi insostenibile, lontanissimo da qualsiasi tentazione miserabilista,
offerto con nitore e pudore documentario. In fondo è vero: si tratta
del «solito» Loach.
Solo che il «solito» Loach con Io, Daniel
Blake ha ritrovato la necessità delle sue opere migliori. Ed è grazie a
film come Io, Daniel Blake che il Ken Loach amato una sera lontana in un
pub di Cannes mentre seguiva una -partita di calcio, pensando ai tanti
film di routine da lui macinati, torna a coincidere, quasi
miracolosamente, con quella di un cineasta che in fondo ci è dispiaciuto
non amare più con il trasporto tributato alle sue opere migliori.