giovedì 20 ottobre 2016

Repubblica 20.10.16
L’implosione del Pd e il rischio instabilità
di Piero Ignazi

IL CONFLITTO interno al Pd sembra sul punto di imboccare una via senza ritorno. Disquisire sui torti e le ragioni della maggioranza o della minoranza è sterile. In linea di principio le responsabilità maggiori sono sempre in capo a chi guida una organizzazione perché è al gruppo dirigente che si imputa la capacità di rappresentare adeguatamente tutti. Ma ormai siamo oltre l’individuazione delle colpe degli uni e degli altri. Non c’è quasi più spazio — ultima finestra la commissione per la riforma del sistema elettorale — per una composizione. Forse più involontariamente che consapevolmente il referendum porterà ad una divaricazione di destini. Troppo radicale, al limite del brutale, l’accelerazione riformatrice di Matteo Renzi per essere metabolizzata da tutta la tradizione post-comunista. E troppo ripiegati a ricucire le ferite del 2013 gli esponenti di quella tradizione per comprendere e affrontare l’irruzione renziana. Eppure Renzi non veniva dal nulla. Le sue prime Leopolde erano incubatoi di idee dentro il perimetro di una sinistra riformista e blairiana: diversa da quella maggioritaria, ma feconda di innovazioni. Sarebbe stata utile un po’ di attenzione allora senza considerarlo un alieno — salvo poi assistere a pienoni mai visti alle feste dell’Unità a cui veniva invitato… Ora il livello di incomunicabilità ha raggiunto una soglia critica. Qualunque sia l’esito del referendum sarà difficile fare un reset e tornare ai blocchi di partenza. Ipotizziamo due scenari di rottura. Se vince il Sì la minoranza può solo sperare in una sorta di riserva indiana a testimoniare com’erano gli abitanti originari di quel mondo politico. Il segretario può invece proiettarsi tranquillamente verso il centro, anche se finora ha raccolto più consensi tra un ceto politico in cerca di collocamento che tra gli elettori. A quel punto, il Pd come l’abbiamo conosciuto, composito e persino confuso ma ancorato alla tradizione della “sinistra storica”, cessa di esistere. Al suo posto nascerà qualcosa di “democrat”, ancora più indefinito, senza ancoraggi, pronto a navigare in altre acque: il suo vero tratto distintivo sarà rappresentato dalla leadership incontestata del segretario-capo del governo. Insomma un vero e proprio PdR (Partito di Renzi) come dice Ilvo Diamanti. Qualora poi gli sconfitti fuggano dalla riserva indiana loro destinata all’interno del PdR, avranno due opzioni: o la dispersione nella solita congerie di piccole formazioni rissose e irrilevanti, o la sfida alta e rischiosa di puntare ad un rapporto — difficile, scontroso e tutto da costruire — con i 5Stelle, destinati anch’essi, presto o tardi, a definire il loro perimetro politico-ideologico. Due strade accidentate e incerte per i fuoriusciti.
Lo scenario della vittoria del No è più chiaro: Renzi, dopo aver dato dimissioni (salvo un voltafaccia che comunque minerebbe la sua credibilità, con tutte le conseguenze del caso e altri possibili scenari), avrà mano libera a costruire, come molti gli chiedevano già nel 2012, una sua formazione politica che apparirà molto più appealing per l’elettorato moderato (che non ha mai capito cosa ci stesse a fare con quei comunisti…). E il Pd ritornerà, ammaccato e indebolito, nell’alveo tradizionale della sinistra storica.
Queste ipotesi, per quanto viaggino sul crinale della fantapolitica, ci prospettano un periodo di instabilità politica. Del resto, la stabilità non regge se non si condividono idee e progetti, sensibilità e riferimenti politico-culturali: e all’interno del Pd si è persa la capacità e persino il desiderio della condivisione. Ormai, l’implosione è nelle cose. A meno che non si ricompongano le fratture prima del 4 dicembre, con uno sforzo “unitario”, come si sarebbe detto un tempo. Il Pd si trova sulla linea di faglia del referendum ma in questa fase non sono in gioco solo i destini di un partito. È a rischio la tenuta del sistema perché il Pd è oggettivamente, il partito cardine del sistema politico, l’unico che assicura governabilità al centro come in periferia, l’unico che, ad oggi, ha le risorse umane e culturali per dirigere questo paese. Per questo, al di là degli scenari ipotizzati, la sua unità è più importante della vittoria dell’uno o dell’altro campo. Per questo gli uomini di buona volontà del partito devono cogliere l’ultima opportunità per ricomporre i dissidi. I conflitti interni sono il sale della democrazia dei partiti: vanno rispettati e la leadership ha il dovere morale di fare di tutto per appianarli.