il manifesto 20.10.16
La nostra debolezza sullo scacchiere americano
di Luciana Castellina
All’inizio
dal Sì al referendum sembrava dovessero dipendere le sorti dell’Italia,
adesso scopriamo che sarebbero in gioco anche la tenuta dell’Europa e
il futuro degli Stati uniti.
Ci sarebbe di che esserne fieri, se
non fosse che il ruolo attribuito a Renzi da Obama non dipende dalla
forza, ma dalla sua debolezza della sua politica. Neppure negli anni più
bui dell’ubbidienza atlantica, un capo di governo italiano aveva
esposto l’Italia alla imbarazzante situazione in cui il capo di un altro
stato si sia permesso di dare un voto sul proprio operato in politica
interna, e persino su come debba essere scritta la sua Costituzione. Con
l’avvilente utilizzo del nostro, ahimè, presidente del consiglio da
parte del presidente degli Stati uniti.
Obama avverte l’Unione
europea che Washington pretende più efficienza dai litigiosi 28 stati
europei, e a questo fine è pronto a rottamare la troppo arrogante
Merkel, il troppo debole Hollande, i presuntuosi britannici.
Sostenere
Renzi nel momento in cui deve affrontare Bruxelles sulla finanziaria,
avrebbe potuto implicare una utile critica alla politica dell’austerity.
E così infatti la cosa è stata presentata. Ma quanto il presidente
americano ha lodato in Renzi può esser difficilmente presentato come
un’alternativa all’infausta linea ordoliberista, perché anzi è apparso
come l’incoraggiamento a perseguirne la sostanza: il Job Act,
l’abolizione dell’articolo 18, e dunque l’estrema precarizzazione del
lavoro. E proprio nelle stesse ore in cui venivano resi pubblici i dati
sull’aumento esorbitante dei licenziamenti senza giusta causa che “le
riforme” hanno prodotto.
Senza dimenticare l’accenno al famoso
Ttip, il trattato per la liberalizzazione degli scambi transatlantici
che la Francia ha rifiutato (e che incontra ancora molte sacrosanta
ostilità a livello europeo), e cui, invece, il disciplinato governo
italiano ha aperto le porte. Un accordo che darebbe un colpo mortale
proprio all’autonomia europea per quanto di meglio ancora conserva.) Nel
plauso di Obama c’è anche il ringraziamento per il pronto servizio
offerto dall’Italia, inviando 450 soldati nientemeno che in Lettonia,
per presidiare le nostre frontiere occidentali dall’invasione dei
cosacchi.
Una Europa più forte e disciplinata nell’attuale
contesto serve ad Obama, oggi criticato per le sue “debolezze” in
politica estera. Ma difficilmente mira a creare l’Europa di cui avremmo
bisogno noi europei; e anche il mondo. Obama in realtà si trova oggi
alla testa dell’insensato rilancio della guerra fredda, che arriva del
resto dopo l’altrettanto insensato e pericolosissimo accerchiamento
della Russia operato dalla Nato sin dall’indomani della caduta del Muro.
Se oggi a Mosca comanda Putin è anche perché è quella strategia che ha
stimolato le peggiori reazioni di un paese cui l’Europa avrebbe dovuto
invece aprire le porte.
In realtà questo incontro Renzi-Obama
dovrebbe preoccupare. Se il presidente americano avverte la necessità di
ricorrere ad una politica estera più aggressiva vuol dire che cresce
l’escalation in favore di una rischiosissima più dura competizione fra
le potenze mondiali. Purtroppo è la linea di cui si fa portavoce Hillary
Clinton ( che siamo costretti a preferire a Trump). E che Obama è
costretto a favorire.
Lo spot propagandistico di Renzi a
Washington è ovviamente parte della battaglia referendaria. C’è chi lo
userà per dire che la vittoria del No sarebbe non solo una catastrofe
per l’Italia ma anche – “vedete cosa ha detto Obama?” – per il mondo.
Sarà dunque ancor più necessario insistere nel rispondere ai non pochi
che pur condividendo le ragioni del No, sono stati convinti che una sua
eventuale vittoria porterebbe ad una pericolosa destabilizzazione del
Pd, lasciando spazio alla destra (o ai 5 Stelle).
Credo sia
davvero il contrario: se non si costruisce una reale alternativa al
pericolo di un accentuato autoritarismo e alla deriva liberista e
iperatlantica cui sta portando, non si farà che dar spazio alle forze
antisistema. In Italia come altrove in Europa. Che proprio dal venir
meno della partecipazione politica della gente, dalla mortificazione dei
movimenti, dalla demonizzazione dei corpi intermedi e dei contropoteri
che rappresentano, dalla marginalizzazione della dialettica democratica
che ne deriva, traggono in definitiva vantaggio.
L’alternativa
immediata, in termini di governo, forse non c’è. Ma rinviare il processo
capace di costruirla non fa che deteriorare il terreno su cui dobbiamo
misurarci. E’ pericoloso, potremo vedere compromesse per un tempo assai
lungo le nostre prospettive. In pericolo è oggi il tessuto democratico, e
nessuna sinistra – e neppure un centrosinistra – può prosperare in una
simile situazione.