Repubblica 1.10.16
Consigli eretici per fuggire dal mondo
Dai racconti di Celati al nuovo saggio di Le Breton: perché artisti e filosofi raccontano la voglia di “spegnere” la realtà
Da Hawthorne a Flannery O’Connor, storie di personaggi che scappano dalla modernità
di Marco Belpoliti
Baratto
è uno stimato insegnante di educazione fisica. Gioca a rugby. Nel bel
mezzo di una partita si blocca a tre quarti del campo e scuote la testa,
smette di giocare e si siede in panchina. Con gli occhi chiusi
trattiene il fiato, resta in apnea, senza aspettare più niente e senza
neppure il pensiero di essere lì. Poi se ne torna a casa guidando la sua
motocicletta. Da quel momento in poi smette di parlare con tutti:
moglie, vicini di casa, preside della scuola. Andrà avanti così per mesi
e mesi in una sorta
di congedo provvisorio da tutto e da tutti.
La moglie lo lascia, la scuola lo solleva dall’incarico, gli amici non
lo riconoscono più.
Il personaggio della novella omonima di Gianni
Celati, Baratto ( Quattro novelle sulle apparenze, Feltrinelli)
disinveste il mondo che lo circonda, per dirla con David Le Breton,
sociologo e antropologo, autore di Fuggire da sé (Raffaello Cortina
editore). Baratto non esiste né per se stesso né per gli altri; la sua è
una defezione, un ritrarsi dalla responsabilità di essere se stesso,
l’unica possibilità per non essere schiacciato e gravato da quel peso
che sono gli impegni verso gli altri, verso la società. Ha tranciato,
seppur provvisoriamente e in modo dolce, il legame sociale. Le Breton
chiama questo stato d’animo, prossimo alla depressione, ma non “nero”
come la depressione, “biancore”: «La volontà di rallentare o arrestare
il flusso del pensiero, di porre finalmente termine alla necessità
sociale di dare sempre corpo a un personaggio, assecondando gli
interlocutori di volta in volta presenti». Si tratta della ricerca di
un’impersonalità che nel racconto di Celati diventa quasi uno stato di
grazia, una forma zen di fuga da sé e dal mondo circostante. Ha ragione
il sociologo francese: l’esistenza talvolta ci pesa. Oggi non è più solo
necessario nascere e crescere, ma occorre «costruire se stessi di
continuo, tenersi in perenne movimento, dare un significato alla vita,
puntellare la propria attività». Un impegno arduo, per alcuni persino
intollerabile.
Quasi venti anni fa il sociologo francese Alain Ehrenberg ha sintetizzato questa condizione con
La
fatica di essere se stessi (Einaudi). Scriveva: «L’insufficienza è per
l’individuo di oggi quello che il conflitto era per l’individuo della
prima metà del XX secolo». Nelle società del passato la felicità
consisteva nel sapersi uniformare ai propri doveri; ora le regole
sociali ci presentano invece la felicità come il sapersi uniformare ai
propri desideri; l’autostima appare l’obiettivo principale. «La vera
autenticità non sta nell’essere come si è, ma nel riuscire a somigliare
al sogno che si ha di se stessi», afferma uno dei personaggi di Tutto su
mia madre di Pedro Almodòvar. Nel costruire se stessi, rincara Le
Breton, l’individuo ha una serie enorme di possibilità «che lo rimandano
alle risorse di cui dispone». Ciascuno è responsabile di sé in questa
corsa continua, e preservare il proprio posto all’interno del legame
sociale implica una tensione e uno sforzo. Sono migliaia e migliaia le
persone che si sottraggono ogni anno a questa prova attraverso la fuga
dal lavoro e dalla famiglia, inabissandosi nella depressione, fuggendo
altrove, «nelle terre estreme». La loro risposta si chiama anoressia,
droga, alcool, malattia mentale, tutti tentativi di sciogliersi da quel
legame sociale che appare una costrizione. Il filosofo Marcel Gauchet
sostiene che il legame sociale è diventato un «dato ambientale» più che
un’esigenza morale. Nei racconti di Gianni Celati c’è un’intera galleria
di personaggi che cercano di interrompere la «commedia delle
apparenze». Baratto è modellato su Bartleby lo scrivano, il protagonista
dell’omonimo racconto di Melville, colui che risponde al suo principale
con «preferirei di no».
In un libro antologico, Storie di
solitari americani (Rizzoli) Gianni Celati e Daniele Benati hanno
raccolto numerose storie di quella letteratura, da Wakefield di
Hawthorne a Non è facile trovare un brav’uomo di Flannery O’Connor,
storie che hanno per protagonisti personaggi in fuga da se stessi. «La
solitudine non sta più nell’esser soli, ma nel non potere evadere dalla
sterilità dei copioni che ovunque si recitano a dovere», scrive Celati
nella prefazione. Ognuno di noi, sostiene lo scrittore, «incarna una
recita che torna sempre agli stessi punti, agli stessi incastri
nevrotici che coincidono con i costumi della società civile».
Il
biancore descritto da Le Breton arriva quando una donna o un uomo stanno
per esaurire le risorse di cui dispongono per continuare a reggere il
proprio personaggio. Ehrenberg sostiene che la depressione va
considerata come malattia sociale nella misura in cui appare una
risposta complessa al nuovo codice sociale: «Il depresso non si sente
all’altezza, è stanco di diventare se stesso». Chi non ha provato almeno
una volta nella vita un’esperienza di spossessamento?
L’adolescenza
è il luogo per eccellenza della perdita di ancoraggio al mondo, alle
cose, agli altri. L’identità oscilla, e non è facile mantenerla. Le
Breton ricorda il caso dei ragazzi Hikikomori, adolescenti che si
rinchiudono volontariamente nella propria stanza e dialogano con il
mondo solo attraverso il computer, esperienza che coinvolge milioni di
ragazzi, non solo in Giappone, da cui il fenomeno sembra aver avuto
origine, ma anche in Europa e in Italia, come racconta l’antropologa
Carla Ricci in Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione (Franco
Angeli).
La letteratura, quasi più della psicologia, è un
repertorio di queste fughe dal mondo, dai racconti di Robert Walser alle
storie di Paul Auster. Che cos’è, se non una specie di Hikikomori il
protagonista di Un uomo che dorme di Georges Perec (Quodlibet), lo
studente che cade in uno stato di torpore e d’indifferenza? Le Breton ci
ricorda che condurre la vita quotidiana richiede oggi comunque una
certa indifferenza, che a volte diventa una forma di discrezione, «per
non mettere a disagio gli altri o non dare pretesto a osservazioni». Il
filosofo Pierre Zaoui l’ha teorizzato in L’arte di scomparire (il
Saggiatore).
Rinunciare a sé è a volte l’unico modo per
sopravvivere alleggeriti dallo sforzo di esistere; i film di Kitano e i
romanzi di Haruki Murakami mostrano numerosi esempi di questo. Baratto
ha raggiunto quello stato di stanchezza, di cui ha parlato in un saggio
alla fine degli anni Ottanta Peter Handke ( Saggio sulla stanchezza): la
stanchezza del vivere catturati come siamo nel reticolo delle relazioni
sociali — come recita la presentazione.
Al termine della novella,
Baratto dorme e parla nel sonno; intorno a lui gli amici lo ascoltano.
Alla fine sbadiglia e si tocca il ginocchio: «Oh, mi è tornato male al
menisco!», esclama. Si stira e si risveglia del tutto. Fa un largo
sorriso e chiede se ha parlato bene. Tutti applaudono. Ha ricominciato a
parlare.