Corriere 1.10.16
Come usare gli occhi
La durata ideale del contatto visivo è di 3,3 secondi: se è meno siamo sfuggenti se è di più
diventiamo invadenti. Ma quali sono le regole? Ecco alcune risposte e alcuni misteri
di Anna Meldolesi
Troppo
breve e sembrerà che siamo sfuggenti. Troppo lungo e rischiamo di
apparire invadenti. Quanto deve durare uno sguardo, occhi negli occhi,
per fare una buona impressione? Per la maggioranza delle persone il
numero magico è 3. Per essere precisi, la durata ideale del contatto
visivo è tre secondi virgola tre. Ma attenzione ai guru che promettono
di regalare successi in amore e carriera insegnando a usare l’eye
contact: questo codice di comunicazione è complesso e non sempre
controllabile in modo volontario.
In decenni di ricerche la
scienza ha scoperto che guardarsi negli occhi ha molti effetti
comportamentali e cognitivi. Un articolo appena pubblicato da un gruppo
franco-finlandese su Consciousness and Cognition passa in rassegna i
benefici: guardarsi mentre ci si parla aumenta l’attenzione, aiuta a
memorizzare i contenuti verbali, rende più consapevoli di sé, spinge le
persone a collaborare. Chiunque sia stato innamorato sa quanto sia bello
perdersi l’uno nelle pupille dell’altro. Ed è lecito sospettare che la
facilità con cui si diventa aggressivi su Internet sia legata
all’impossibilità di vedersi. Ma concedersi o negarsi alle occhiate può
diventare anche un gioco di potere. Chi è in alto nella gerarchia può
ignorare l’interlocutore oppure squadrarlo. Chi è in posizione
subalterna è attratto dagli occhi del leader ma non osa sostenerne lo
sguardo. Gli occhi degli uomini conversano quanto le lingue, amano
ripetere gli appassionati di linguaggio del corpo.
Dei ricercatori
dell’Imperial College London hanno testato 498 persone reclutate al
Museo della scienza della capitale britannica. Uomini e donne di tutte
le età e di oltre cinquanta nazioni. Ogni soggetto ha osservato dei
video di durata variabile in cui un attore o un’attrice guardavano
dritti nella videocamera, come se fissassero lo spettatore. È stato
identificato così il tempo medio oltre il quale invece di provare
empatia iniziamo a sentirci a disagio, ma non sono emerse spiegazioni
semplici sul perché per alcuni questa soglia si alzi o si abbassi. È
noto che culture diverse incoraggiano contatti più o meno ravvicinati. E
secondo alcune ricerche le donne sono più disponibili al contatto
visivo. Ma lo studio inglese, pubblicato sulla rivista Royal Society
Open Science, non evidenzia facili correlazioni con elementi come il
sesso o il paese. Nemmeno la bellezza degli attori sembra incidere sul
risultato. E forse è ancor più sorprendente che non esista una relazione
automatica fra la durata preferita e la personalità, valutata con i
classici test che misurano tratti come l’estroversione. «Probabilmente
siamo alle prese con una complessa interazione di fattori culturali,
genetici e situazionali. La durata “corretta” di uno sguardo è una norma
sociale ma può variare in funzione delle circostanze e della persona
che si ha di fronte», ci dice il primo firmatario della ricerca, Nicola
Binetti.
Guardandoci comunichiamo intenzioni ed emozioni,
dimostriamo più o meno interesse a leggere dentro al nostro
interlocutore e gli concediamo la nostra disponibilità a essere letti.
Quello che si consuma nell’arco di pochi secondi è un incontro fra
l’altro e il sé, che viene elaborato dal «cervello sociale»,
coinvolgendo il solco temporale superiore, la corteccia prefrontale e
orbitofrontale, l’amigdala. L’importanza di questi segnali è
testimoniata dalla morfologia degli occhi umani, perché il contrasto fra
sclera bianca e iride colorata aiuta a capire dove punta lo sguardo. Il
fatto che si tratti di meccanismi ancestrali è dimostrato dalla
precocità con cui i bambini guardano negli occhi la mamma. La difficoltà
di stabilire un contatto visivo, del resto, è tipica di condizioni
patologiche come l’autismo e le ansie sociali. In condizioni normali la
direzione dello sguardo si può controllare e questo consente di
allenarsi e barare. Ma la dilatazione delle pupille è un fenomeno
involontario che rivela eccitazione e vigilanza, segnalando anche una
maggior propensione al contatto visivo. «Lo sguardo è il risultato di
una relazione fra cosciente e sottocosciente», ci dice Salvatore Maria
Aglioti, neuroscienziato della Sapienza Università di Roma. Per questo
si dovrebbe diffidare dei training semplicistici. «Il contatto visivo è
pieno di sottili sfumature. O si è dei bravi attori o è meglio essere
spontanei», concorda Binetti. Certo se pratichiamo il telelavoro,
flirtiamo sui social, scambiamo opinioni via chat, il codice degli
sguardi diventa muto. «Questo ci rivela meno degli altri, ma ci consente
anche di esporci di meno. È un vantaggio o una perdita? Dipende»,
ragiona Aglioti.
Senza sguardi, mimica, gestualità, voce si
perdono molte informazioni difficilmente sostituibili da una sfilza di
emoticon. D’altro canto queste limitazioni erano presenti anche nella
corrispondenza scritta con penna e calamaio, nota Binetti. Probabilmente
serviranno degli studi generazionali per capire quali conseguenze
psicologiche può avere la comunicazione «disincarnata» dei nostri
giorni.