Repubblica 1.10.16
Il falò delle velleità al Campidoglio
l caso dei due assessori conferma il deficit culturale e politico dei 5 stelle
di Massimo Giannini
DAL
cervellotico e pirotecnico “Assessority day” grillino — come l’ha
ribattezzato quel genio di Maurizio Crozza — sono infine spuntati i due
nomi tanto attesi. Proprio come aveva previsto il comico genovese
(quello che fa ridere in televisione, non quello che fa piangere nei
comizi).
LA SDRUCITA giunta Raggi non la ricuciono i magistrati di
grido o gli economisti di rango, che comprensibilmente si sfilano uno
dopo l’altro. La rattoppano i commercialisti, che inopinatamente si
ritrovano ad osare l’inosabile: salvare Roma dalla bancarotta economica,
etica e politica, e dimostrare che il Movimento Cinque Stelle, superata
la prova Capitale, può persino governare il Paese.
Il nuovo
assessore al Bilancio — poltrona vacante ormai da un mese dopo la
micidiale sequenza dei caduti sul campo Minenna-De Dominicis-Tutino — è
infatti un commercialista. Ma la sindaca non l’ha selezionato fermandolo
al volo per la strada, come vagheggiava Crozza nella sua irresistibile
gag. L’ha piazzato sulla sedia più elettrica del Campidoglio
prelevandolo direttamente dal Raggio Magico. E tutto sommato, questo è
l’unico motivo per cui Andrea Mazzillo, oggi, va a ricoprire
quell’incarico così delicato. Per il resto, e per un’insondabile nemesi
della Storia, il nuovo assessore non può fregiarsi di altri meriti
riconosciuti e riconoscibili, se non quello di avere come padre il
professor Luigi, stimatissimo consigliere della Corte dei conti, cui la
stessa Raggi si era rivolta come “cacciatore di teste”, e che alla fine
non ha potuto consigliare altri che suo figlio. Non solo: Mazzillo
incarna su di sé tutto quello che i pentastellati hanno sempre odiato di
più. È dipendente in aspettativa di Equitalia (che Grillo considera un
cancro da estirpare) ed è pretendente trombato a una primaria del Pd
(che Grillo considera un’associazione a delinquere). Peccati veniali,
per un “establishment” infarcito di parecchi ex qualche cosa (studi
legali Previti-Sammarco, giri destrorsi Alemanno-Marra).
Lo
stesso, su un piano diverso, si può dire del nuovo assessore alle
Partecipate. Massimo Colomban è un imprenditore trevigiano, fondatore di
un marchio noto come Permasteelisa. Anche lui ha sbandato parecchio:
prima semi-leghista a fianco di Zaia, poi semi-piddino ammaliato
addirittura da Renzi («è un innovatore»). Ma oggi dalla sua non ha altro
che un “atout”: l’amicizia con Gianroberto Casaleggio. Ma tanto basta, e
ovviamente avanza, per farsi largo in un Movimento dilaniato dalle
guerricciole di potere tra centro e periferia e affamato di “quadri”
politicamente spendibili per il governo.
Il dramma che si sta
consumando a Roma non è solo e non è tanto la qualità delle classe
dirigente che i grillini riescono a mettere in campo. Le giunte
precedenti, rossoverdi o nerazzurre che fossero, alla fine non si sono
dimostrate molto migliori, se ci hanno regalato Mafia Capitale e hanno
lasciato la città sommersa dai rifiuti, ammorbata da Parentopoli e
Affittopoli e con un debito monstre da 13 miliardi. Quella che non si
può più reggere è la totale assenza di strategie in politica e di regole
nella governance. Un tema che interroga nel profondo il Movimento, e
che non si esaurisce solo nel fallimento del test romano. Chi comanda?
Con quali deleghe? Per fare che cosa? A queste domande non c’è risposta.
Né a Roma né altrove. Tutto si risolve nella “ridiscesa in campo” del
Beppe nazionale, che a Palermo si riprende a colpi di altri Vaffa le
cinque stelle impazzite e spente (prima che le inghiottano i buchi neri
del caos). Tutto si confonde nella nebulosa roussouiana della Casaleggio
& Associati, dove il figlio Davide sovrintende, “in nome del
padre”, non si sa bene a chi e non si sa bene a cosa («lei è una figura
che ci interessa per il compito di assessore — si sono sentiti dire
diversi candidati in queste settimane — ma dobbiamo sottoporre il suo
profilo anche a Milano…»). Tutto si consuma negli alti e bassi del
“borsino” quotidiano interno ed esterno al direttorio (i giorni pari
sale Di Battista e scende Di Maio, i giorni dispari volano le quotazioni
di Lombardi e crollano quelle di Ruocco).
L’autodafè che brucia a
Roma, questo gigantesco falò delle velleità, è un caso troppo grave. Lo
è in chiave locale. Perché la città è allo stremo, mentre Raggi balla
sotto il vulcano alla faccia degli odiati giornalisti e ripete che è
tutto bello, bellissimo. Perché dopo 100 giorni la giunta ha varato 39
delibere di cui 23 hanno riguardato solo nomine. Perché un’altra
“stella” dovrà prima o poi cadere, quella di Paola Muraro, indagata
ormai anche per gli scandali dell’Ama legati agli affari di Buzzi e
Carminati (ma ancora non c’è una “regola” generale, che valga erga omnes
su tutti gli amministratori indagati, cioè allo stesso modo per lei e
per l’esecrato Pizzarotti). Perché se n’è andato anche il Ragionere
Fermante (non prima di aver scritto ad Alfonso Sabella il fatale sms «ho
provato a ragionarci, ma con questi è impossibile»). Perché i romani
continuano a versare 200 milioni l’anno di addizionale Irpef nel pozzo
senza fondo del deficit capitolino, mentre Ama e Atac vanno in malora,
con 1,6 miliardi di costo a bilancio a fronte di un debito cumulato di
2,8 miliardi.
Ma l’incendio è grave soprattutto su scala
nazionale. Riverbera i suoi effetti sul futuro politico del Paese. Sugli
esiti del referendum. Sul destino dell’Italicum e su quello
dell’Italia. Conferma, purtroppo plasticamente, il deficit politico,
strutturale e culturale, di un “non partito” che proprio per custodire
il mito della sua ineguagliabile purezza e della sua irriducibile
diversità, non sa “farsi Stato”. E continua, nonostante tutto, a
concepirsi come “setta”. Una setta dove salta il principio della delega e
della rappresentanza, perché a decidere è un capo (uno non vale più
uno, se c’è uno che vale tutti) o è una società di consulenza aziendale e
comunicazione (che vaglia i curricula, e boccia e promuove secondo
criteri insondabili). Così, in nome della democrazia, si nega la
democrazia.
Certo fa riflettere il fatto che per adesso,
nonostante questi obiettivi disastri, i pentastellati non paghino pegno
nei sondaggi. E fa pensare ancora di più il fatto che, sui guai
grillini, non prosperino elettoralmente né il Pd renziano, tormentato
dai Bersani e dai Verdini, né il centrodestra parisiano, balcanizzato
dai Brunetta e dai Salvini. Per questo Renzi dovrebbe evitare gli
inutili trionfalismi, e non irridere troppo Di Maio che, citando a
sproposito “Pinochet dittatore del Venezuela”, inciampa sulla geografia,
invece di finire nei libri di storia. A noi, poveri cittadini elettori,
basterebbe più banalmente qualche buona notizia in cronaca.