Repubblica 19.10.16
Gerusalemme è la città delle tre religioni. Ecco perché l’Unesco sbaglia
La risoluzione anti-Israele un favore agli estremisti. Italia si astiene, proteste
di Roberto Toscano
I
RAPPORTI fra Nazioni Unite e Israele sono caratterizzati da una
tensione permanente che in qualche occasione si trasforma in scontro
aperto. Si va dalla questione degli insediamenti nei territori occupati
agli interventi militari contro Gaza ai metodi usati da Israele per
reprimere la rivolta palestinese. Su tutti questi temi l’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite si esprime periodicamente a maggioranza per
condannare Israele, e soltanto i veti opposti sistematicamente dagli
Stati Uniti (oltre 40 volte dal 1972 a oggi) impediscono al Consiglio di
Sicurezza di approvare risoluzioni che avrebbero effetti molto più
concreti che non le risoluzioni dell’Assemblea Generale.
L’Unesco,
l’organizzazione delle Nazioni Unite per cultura e scienza, ha adottato
ieri una risoluzione dedicata alla “tutela del patrimonio culturale
della Palestina e il carattere distintivo di Gerusalemme Est”.
Nei
42 paragrafi della risoluzione si denuncia il comportamento di Israele
per quello che viene definito il mancato rispetto dei luoghi santi
dell’Islam e per “il crescendo di aggressioni e di misure illegali
contro la libertà di preghiera dei musulmani” negli stessi luoghi.
UN
TESTO certo pesante nella sostanza, ma la vera ragione dell’inasprirsi
della crisi fra l’Unesco e Israele (che ha sospeso la sua partecipazione
all’organizzazione) non si riferisce tanto ai punti della requisitoria
contro il comportamento del governo israeliano ma alla terminologia
usata. La risoluzione riprende infatti, per definire quella parte di
Gerusalemme, unicamente il suo nome musulmano, Haram el Sharif (il
Nobile santuario) e non quello usato dagli ebrei,
Har ha- bayit
(“Monte del tempio”). Come accade inevitabilmente nelle questioni che
vedono la contrapposizione di divergenti interpretazioni storiche e di
incompatibili rivendicazioni, le parole risultano più pesanti della
sostanza delle cose. Se non fosse stato per questo dato terminologico
Israele avrebbe reagito a questa ennesima condanna in sede Onu ribadendo
le proprie posizioni — e di fatto ignorandola sostanzialmente. Questa
volta però si è toccato un punto veramente irrinunciabile per gli
israeliani (non solo per il governo Netanyahu) e, va aggiunto, per gli
ebrei della diaspora, anche i più progressisti e aperti alle ragioni dei
palestinesi. Sono pochissimi gli ultra sionisti che chiedono che il
Monte del tempio venga recuperato per l’ebraismo cancellando le tracce
della presenza musulmana, ma tutti gli israeliani e tutti gli ebrei
considerano il Muro del pianto, che fa parte della zona presa in
considerazione dalla risoluzione dell’Unesco, come il più sacro per
l’identità ebraica, sia religiosa che culturale.
Come ha ricordato
il direttore generale dell’Unesco Irina Bokova, palesemente a disagio
per la situazione, Gerusalemme deve essere vista come «spazio condiviso
di patrimonio e tradizioni per ebrei, musulmani e cristiani».
Si
tratta di un punto irrinunciabile non solo perché non è ammissibile non
riconoscere — ovunque — la realtà plurale della cultura e della storia,
ma anche perché nessuna soluzione del conflitto israeliano- palestinese
può venire dalla pretesa, israeliana o palestinese che sia, di ignorare,
annullare, sradicare o sottomettere la presenza dell’altro popolo.
Oggi
la potenza militare ed economica dello stato di Israele viene spesso
esercitata ignorando regole internazionali (come la Quarta Convenzione
di Ginevra, violata dalla costruzione di insediamenti nei territori
occupati nel 1967) e principi umanitari. È giusto che la comunità
internazionale condanni queste violazioni e si schieri a favore del
riconoscimento di uno Stato palestinese. Su questo esiste un ampio
consenso della comunità internazionale — un consenso che però verrebbe
meno se il riconoscimento del diritto dei palestinesi di avere un
proprio stato dovesse essere associato alla negazione dei diritti di
Israele, compresi quelli relativi al patrimonio culturale e religioso.
Nel
promuovere e fare approvare la risoluzione i paesi musulmani — fra
l’altro non certo modelli di pluralismo sia religioso che culturale —
hanno quindi commesso un grave errore, fornendo argomentazioni a chi,
come la destra israeliana, sostiene che l’idea dei due stati è irreale o
fraudolenta, dato che è l’esistenza stessa di Israele, e non i suoi
limiti territoriali o le sue azioni, ad essere messa in causa.
È
interessante vedere come si è votato: si sono espressi a favore della
risoluzione 24 paesi, nella maggioranza arabo-musulmani con l’aggiunta
di Russia, Cina, Brasile e Sudafrica; contro, sei paesi, fra cui Usa,
Regno Unito, Germania e Olanda; si sono astenuti 26 paesi. Fra questi
l’Italia, che si era astenuta anche nel 2011 quando all’Unesco si era
votato sull’ammissione della Palestina come paese membro.
Forse
per dare credibilità alla nostra posizione (riconoscimento di uno stato
palestinese; riconoscimento del diritto di Israele all’esistenza)
avrebbe avuto più senso votare a favore nel 2011 e contro in questa
occasione.