Repubblica 17.10.16
Leonard Cohen
Quella voce profonda e torbida che canta sulla fine dei giorni
A
pochi mesi dalla morte dell’amata Marianne, il grande artista canadese
pubblica il suo nuovo album “You want it darker”, disponibile in tutto
il mondo dal 21 ottobre
di Giuseppe Videtti
ROMA
LO ascolti come una preghiera, un sermone, un mantra. Ti fai
attraversare dalla sua voce torbida e profonda, implacabilmente
sensuale. Ogni verso pronunciato da Leonard Cohen è un’allerta che non
puoi ignorare, una raffinata, irresistibile opera di seduzione che
induce all’abbandono, azzera le difese, costringe alla resa. Ci si perde
nel labirinto di quella voce baritonale che arriva chissà da quali
recessi del corpo o dell’anima. Cohen non accarezza, abbraccia, stringe
forte, e quando ti lascia, sono solo blues.
Lo faceva con
l’entusiasmo e il tormento dei vent’anni, ancora profumato di beat
generation, lo fa con voce persino più prepotente oggi che ha compiuto
82 anni e sta per pubblicare (il 21 ottobre)
You want it darker,
il quattordicesimo album. Segni di stanchezza? Nessuno. Fragilità
senili? Neppure. Cedimenti nella voce? Tutt’altro. Cohen ha fatto suo il
motto di Jacques Brel — gli adulti sono così stronzi! — e della
maturità sfoggia solo la consapevolezza, nessun presagio di esaustione
fisica dopo un interminabile, vigoroso tour di tre anni (parla anzi di
altri due dischi in cantiere). Non ha una nuova musa da venerare, la sua
Marianne (Ihlen) è morta qualche mese fa mentre al capezzale le
sussurravano i versi della “loro” canzone, e Suzanne è un enigma che
incarna di volta in volta le sembianze della donna amata, il suo odore,
il suo sapore, persino l’assenza.
You want it darker non è un
ostentato tripudio di vitalità, sarebbe insensato da un artista di
quest’età, ma le riflessioni di un uomo alla fine dei giorni che con
serena autorevolezza costringe angeli e demoni, estasi e tormenti di una
vita intera, a stringersi la mano. Nella dimensione poetica di Cohen,
dove il profano è divino almeno quanto il sacro, il frequente
riferimento ai testi sacri è una sorta di catarsi. «Hineni, hineni » ,
recita in yiddish in You want it darker, «I’m ready my Lord» — Sono qui,
mio Signore, sono pronto.
Le parole di Abramo non rappresentano
la capitolazione del cantautore né la ricerca di un estremo conforto tra
le braccia della fede, piuttosto una quieta accettazione
dell’impermanenza (sul finale, la voce di Gideon Zelermyer, cantore
della sinagoga Shaar Hashomayim di Montreal, quella che Leonard
frequentava da bambino, aggiunge al brano un pathos straordinario).
Subito dopo, in Treaty, Cohen si rivolge direttamente a Dio col suo
piglio consueto: «Abbiamo acceso milioni di candele per un aiuto che non
è mai arrivato (…) Vorrei ci fosse un armistizio tra il tuo amore e il
mio». E in It seemed the better way ribadisce con saggezza laica:
«Sembrava la via giusta, quando lo sentii parlare per la prima volta.
Ora è davvero troppo tardi/Per porgere l’altra guancia. Sembrava la
verità, Ma non è la verità oggi».
Adam Cohen, chiamato per la
prima volta a collaborare con suo padre insieme all’inseparabile Pat
Leonard (già produttore di Madonna), ha enfatizzato la dimensione
spirituale di You want it darker affidandosi ai cori femminili (in On
the level arrivano come voci portate dal vento da chissà quali altre
dimensioni), al pianoforte e al violino, che s’insinua malinconico tra i
recitativi — struggente come quello di Itzhak Perlman nella scena più
toccante di Schildler’s list. Quando la musica diventa più avvolgente,
come in Leaving the table, un sontuoso blues che si scioglie in un
valzer, Cohen ci avvita le incertezze della terza età con un’abilità che
lascia sbalorditi: «Sto lasciando il tavolo/Sono fuori dai giochi/Non
conosco le persone/ Che hai messo in cornice»; non un segno di resa, ma
la consapevolezza dei propri limiti. In Traveling light voce e violino
raggiungono un effetto sorprendente: Cohen si abbandona ai ricordi e
sussurra i suoi versi all’orecchio, tremendamente persuasivo,
appassionato, seducente, come quando, ai tempi del Chelsea Hotel,
cantava il mistero del corpo femminile e il desiderio che lascia senza
difese: «Buona notte, buona notte mia stella cadente/Credo tu avessi
ragione, l’hai sempre avuta/ Vivi una vita che non avresti mai scelto/E
io sono solo un pazzo, un sognatore che ha trascurato di sognare di me e
di te». Infine in Steer your way, severo e autorevole, bacchetta
l’arroganza dei nostri tempi e invita tutti al «mea culpa che col tempo
abbiamo dimenticato».
Mentre Bob Dylan tesse le lodi del collega attraverso le pagine del
New
Yorker, che dedica un profilo monumentale all’illustre canadese, Cohen
ha commentato il Nobel che ha diviso il mondo della cultura nel modo più
equilibrato: «Come dare una medaglia all’Everest perché è la montagna
più alta del mondo».