lunedì 17 ottobre 2016

Corriere 17.10.16
Conlon: la mia musica classica nata dai migranti di Ellis Island
Il direttore Usa guida l’Orchestra Sinfonica Rai: fiero delle origini italiane
intervista di Valerio Cappelli

«Sono nato e cresciuto nella New York degli Anni 50 — racconta James Conlon — da una famiglia cattolica con origini irlandesi, tedesche e italiane. Ero il quarto di cinque figli, soldi a casa pochi. Il mio bisnonno, Giuseppe di Grazia, era musicista come me, veniva da Calvello, un paesino della Basilicata». Dopo l’incarico stabile all’Opera di Los Angeles (dove nel 2010 ha diretto il primo completo Ring di Wagner) da giovedì sarà anche direttore principale dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai di Torino: due Quinte Sinfonie (Schubert e Mahler), concerto in diretta su Rai5.
Le sue radici italiane?
«Si sono rafforzate quando mi sono innamorato della musica. Una volta a un ristorante non sapevo come si dicesse coltello e ho chiesto un pugnale, pensando al Rigoletto : Io la lingua, egli ha un pugnale ...». Risero tutti. Ho capito che era il momento di studiare l’italiano. Da ragazzo dovevo darmi da fare, quanti libri ho letto alla Biblioteca pubblica di New York. Come molti in quella città, eravamo discendenti della grande ondata migratoria dell’800 che veniva selezionata a Ellis Island. Ricordo tanti musicisti ambulanti, e ricordo le tavolate di parenti, mio padre parlava di storia e politica, aveva partecipato allo sbarco in Normandia, era attivista di diritti civili, una volta mi portò a sentire un discorso di Martin Luther King: mi diede la mano e ne rimasi impressionato».
E la musica?
«In casa c’era un piano che nessuno suonava, cominciai a prendere lezioni, cantavo in un coro e pensavo che sarei diventato cantante. Ma a 13 anni decisi che il futuro era il podio. A New York erano gli anni di Bernstein. Nel 1970 la Juilliard Orchestra fu invitata a Spoleto. Andai con loro come assistente direttore. L’anno seguente in quel festival col Boris Godunov feci il mio debutto assoluto in un’opera».
Alla scuola Juilliard incontrò Maria Callas.
«Partecipai alle sue master class. Ero intimidito, non riuscii a rivolgerle la parola. Lei era precisa, professionale e incoraggiava chi lo meritava. Anni dopo in un corridoio della scuola mi chiamò maestro, ribattei di chiamarmi James. E lei: no, quando si dirige come te, sei un maestro. Capii che potevo fare questo mestiere. Sono stato fortunato a conoscere lei, James Levine e il meno conosciuto Dick Marzollo, che fu assistente di Toscanini e aveva lavorato con Mascagni. Ho avuto il privilegio di lavorare con Strehler e Tito Gobbi. Nella musica sono italo-americano al cento percento».
Nei concerti dà spazio a compositori perseguitati dal nazismo.
«Dopo il ‘45 ci furono omissioni da chi suonava o insegnava, era parte del lascito delle atrocità commesse dai nazisti che ridussero al silenzio due generazioni di musicisti, molti dei quali internati a Terezín. Eppure la loro musica è sopravvissuta e rivela i fermenti culturali del loro tempo. Il cliché secondo cui nessun capolavoro è andato perduto rivela la nostra ignoranza. È un buco nella nostra conoscenza, e di sicuro a Torino li proporrò. Se Zemlinsky, Korngold e Schreker sono noti, potrei aggiungere Ullmann, Haas, Hartmann, Schulhoff».
A Los Angeles è solito parlare prima di raggiungere il podio.
«Parlo per un’ora nel foyer del teatro. L’audience è cresciuta, la gente vuole capire il contesto in cui la musica è nata e così sopperiamo alla mancanza di educazione artistica nelle scuole».