Repubblica 13.10.16
La fabbrica di poltrone che non chiude mai dove i manager pubblici sono più dei dipendenti
La
Corte dei conti: sono settemila le società degli enti locali e 1.300
hanno pochissimo personale. Il governo prova una nuova stretta
di Marco Ruffolo
Solo
il 35% muove bus e metro o vende energia, le altre svolgono imprecisati
servizi Un terzo del totale riceve finanziamenti statali che superano
di gran lunga l’offerta Su oltre 22 mila affidamenti di lavoro appena
150 vengono assegnati tramite gare
Questa era fino a due anni fa
l’incredibile intreccio di società partecipate da Comune di Roma,
Provincia e Regione Lazio. Il grafico fa parte di un lavoro di Roberto
Perotti e Filippo Teoldi per lavoce.info. Da allora solo alcune sono
state dismesse o messe in liquidazione
ROMA. Si è
propensi a credere come qualcosa di ovvio che le aziende pubbliche
possedute da comuni, province e regioni rispondano a comuni, province e
regioni. Che quello che fanno sia soprattutto offrire servizi pubblici
locali. Che il numero dei loro dipendenti sia superiore a quello degli
amministratori. Invece non è così. Anzi, è tutto il contrario. Le oltre 7
mila società partecipate da enti locali costituiscono ormai un esercito
che si autogoverna da solo, spesso addirittura sconosciuto ai generali
che dovrebbero guidarlo. Solo il 35% di quelle aziende si preoccupa di
far arrivare acqua, luce e gas nelle case degli italiani, di far girare
bus e metropolitane, di assistere anziani e disabili. Il 40% svolge
invece generiche attività “strumentali” (per lo più professionali) e il
restante 25 non si sa affatto cosa faccia. Un terzo del totale, inoltre,
ha più amministratori che dipendenti e un’altra buona fetta riceve
finanziamenti pubblici che superano di gran lunga la produzione offerta
di beni e servizi.
Proprio mentre il governo tenta l’affondo
finale per tagliare almeno una parte delle 7.181 aziende pubbliche
locali, la Corte dei conti le fotografa impietosamente nel loro stato di
totale anarchia, mettendo in risalto soprattutto il ruolo di
distributori automatici di poltrone che quegli organismi stanno ormai
assumendo in misura preponderante. I magistrati contabili sono
periodicamente chiamati a monitorare oltre a spese, sprechi e costi, i
piani di razionalizzazione di ciascuna amministrazione locale, a
cominciare proprio dallo sfoltimento delle “partecipate”, già previsto
dalla legge di stabilità 2015.
Sfoltimento di cui però, almeno
finora, non si vede neppure l’ombra. La Corte de i conti è costretta già
in partenza a ridimensionare la platea sotto indagine: delle 7.181
partecipate locali, solo 4.217 hanno dati di bilancio disponibili e
confrontabili. Sulla base di questo elenco, regioni, province e comuni
hanno presentato i piani con i tagli richiesti, ma tutto sono questi
piani meno che di razionalizzazione. Tanto che la Corte dei conti
scrive: «Gli esiti delle istruttorie svolte evidenziano diffusi
comportamenti di disapplicazione della normativa, soprattutto per la
difficoltà degli enti di esercitare compiutamente i poteri di indirizzo e
di controllo nei confronti delle proprie partecipate ». Gli enti locali
non dispongono neppure della “completa mappatura” delle società
possedute. La Corte dei conti parla infatti di «rappresentazione
lacunosa e parziale delle partecipazioni possedute, che ha impedito in
molti casi di intraprendere le necessarie azioni correttive».
Nei
loro piani si possono leggere passaggi quasi surreali. Come quello in
cui la regione Calabria decide che il piano stesso non è obbligatorio ma
solo indicativo. O come quello in cui la regione Lazio per sfoltire
l’elenco delle sue società ne crea una nuova. Glielo consente lo statuto
grazie a una riserva di legge. Alcuni comuni lombardi, dal canto loro,
dimenticano di indicare l’acquisizione di nuove partecipazioni e non si
sentono in dovere di dimostrare l’indispensabilità delle loro aziende.
La Toscana interpreta a suo modo la legge liberandosi solo delle
partecipazioni minoritarie. E le province di Ancora e di Ascoli Piceno
si rifiutano di dismettere società con un numero di dipendenti inferiore
a quello dei dirigenti. L’elenco delle fantasie interpretative locali
continua ancora per pagine e pagine, in un crescendo che smonta pezzo
dopo pezzo la legge dello Stato.
Il mosaico dei dati a
disposizione dei magistrati contabili dimostra in realtà come la
funzione di quegli organismi che si vogliono salvare a tutti i costi sia
non solo quella di fornire servizi ai cittadini quanto di catalizzare
consenso politico. E i loro azionisti, invece di indirizzarli e
controllarli, tagliando i rami secchi, fanno da argine ad ogni tentativo
di razionalizzazione. Ed ecco spuntare allora le 1.279 partecipate con
più amministratori che dipendenti, che entro un anno dovrebbero sparire,
o le quasi tremila con meno di 20 impiegati ciascuna, molte delle quali
sono scatole vuote. Ecco le 2.753 società che non offrono servizi ai
cittadini, gran parte delle quali in perdita. Ma il consenso politico si
fa anche assumendo senza badare a costi: così nelle imprese totalmente
pubbliche il costo del personale sale fino ad arrivare a un terzo
dell’intero fatturato, con punte del 78% in Basilicata, del 59 in
Calabria e del 53 in Campania. Il consenso si fa infine chiudendo ogni
porta alla concorrenza e avvantaggiando solo gli amici: su 22.342
affidamenti di lavoro, le gare sono soltanto 150. In tutto questo, il
conto economico sembra l’ultima delle preoccupazioni: se nel complesso
“gli organismi in utile superano quelli in perdita”, al Sud succede il
contrario e in due regioni – Sicilia e Campania – il rosso supera il
fatturato. Nel complesso, poi - dice la Corte dei conti - «c’è una
prevalenza dei debiti, 82,3 miliardi, sui crediti».
Raddrizzare un
quadro così inclinato verso il clientelismo non è per niente semplice.
Ci prova il governo con il decreto Madia, appena approvato, che cerca di
dare una stretta più forte di quella quella, inefficace, della legge di
stabilità 2015. Gli enti territoriali avranno sei mesi di tempo per
fare una ricognizione seria delle società possedute e un anno per
liquidare quelle non necessarie che non rispettano le regole. Quali? Le
scatole vuote, quelle con bilancio in rosso per 4 anni negli ultimi 5
esercizi, quelle con più amministratori che dipendenti, quelle con
fatturato sotto un milione di euro. Sarà possibile mantenere o creare
solo imprese che realizzano opere pubbliche o che offrono servizi di
interesse generale. Ed è in questa formulazione forse troppo ampia che
potrebbe rimaterializzarsi quella sfrenata fantasia interpretativa che
ha consentito finora a regioni, comuni e province di mantenere lo status
quo.