giovedì 13 ottobre 2016

Repubblica 13.10.16
Noi, straniere in patria eterne pecore nere in un’Italia immobile
di Igiaba Scego

Q uasi undici anni fa io e le mie amiche colleghe Ingy Mubiayi, Laila Wadja, Gabriella Kuruvilla mandavamo alle stampe un volume di racconti dal titolo Pecore Nere (Laterza). Quel titolo — nato da una fortunata intuizione di Emanuele Coen che insieme a Flavia Capitani aveva curato il volume — fotografava perfettamente la nostra condizione di paria della società italiana. Eravamo made in Italy, nate e/o cresciute nel Bel Paese, ma a causa delle nostre origini (ovvero i nostri genitori stranieri) l’Italia non ci vedeva come figlie sue, come roba sua. Eravamo appunto delle pecore nere.
Mi ricordo che in uno dei mie racconti, Salsicce, al centro della scena c’era una ragazza musulmana sunnita che voleva mangiare carne di maiale, proibita dalla religione islamica. Voleva compiere un peccato, qualcosa che non voleva fare, solo per essere accettata, per dimostrare agli italiani di essere italiana pure lei. Con quelle “salsicce” avevo di fatto messo in scena la lacerazione in cui vivevamo noi seconde generazioni allora. Noi ci sentivamo addosso al 100% la terra dei nostri genitori e al 100% l’Italia in cui eravamo nati, cresciuti, l’Italia che ci aveva abbracciato e accompagnato al nostro primo giorno di scuola. La ragazza non a caso nel racconto non riesce a frazionarsi, non sa se è più somala, più italiana, ¾ somala, ¼ italiana o tutto il contrario. «Non so rispondere », dirà, «non mi sono mai frazionata prima d’ora». Ma poi la legge, lo stato, l’Italia ti porta proprio a questo, a frazionarti, a vivisezionarti, a odiarti in alcuni casi. Non concedere il diritto di cittadinanza ai figli di migranti nati e cresciuti in questo Paese ha significato di fatto marginalizzare una fetta importante di società, bloccare energie vitali, creare un ghetto emotivo dove si è diventati di fatto italiani di serie B, italiani con il permesso di soggiorno.
Dopo undici anni Pecore Nere è ancora molto letto. È un longseller. L’antologia è stata citata pure dal presidente Giorgio Napolitano in un discorso pubblico. Ma ogni volta che vedo il libro su uno scaffale o tra le mani di un lettore mi prende un po’ il magone. E questa si trasforma in pura disperazione quando qualcuno mi dice «ah quanto è attuale quello che avete scritto». Lì vorrei piangere tutte le mie lacrime. Non vorrei fosse attuale. Oggi siamo ancora come undici anni fa. È triste. Possibile che la nostra Italia sia ancora così immobile? Possibile che siamo ancora, dopo undici anni, stranieri nella nostra nazione?