giovedì 13 ottobre 2016

Repubblica 13.10.16
L’ombra dell’apocalisse
di Massimo Giannini

IO SONO l’ultima barriera tra voi e l’Apocalisse», dice Hillary Clinton agli americani a un mese dalle elezioni presidenziali. Fatte le debite proporzioni, è la stessa cosa che Matteo Renzi dice agli italiani a meno di due mesi dal referendum costituzionale. Nulla a che vedere con quel “potere minaccioso” di cui, con imperdonabile e quasi grottesca esagerazione, parla Massimo D’Alema. Manca solo l’accusa al “Pinochet del Venezuela” evocato da Di Maio, e poi lo sciocchezzaio del nuovo, tragicomico “tripolarismo” all’italiana è completo.
La verità è che la campagna elettorale del presidente del Consiglio, in vista del voto del 4 dicembre, è un paradosso nel paradosso. Ha commesso un peccato originale, ri-politicizzando un quesito anti-politico e trasformando una riscrittura della Carta in un’ordalia su se stesso. Ha riconosciuto l’errore, annunciando «basta personalizzazioni, torniamo al merito». Ma ora l’intera macchina della propaganda referendaria gira intorno alla sua persona, tra maratone televisive, pellegrinaggi aziendali e convegni promozionali.
Il premier è il messaggio, al di là o a dispetto delle intenzioni. Era inevitabile che accadesse, per come la battaglia è cominciata prima dell’estate e per come sta evolvendo in questo autunno. Renzi ha solo due armi per convincere quel 30 per cento di italiani che ancora non sanno come votare sul nuovo “Senato dei 100”, e che secondo i sondaggisti decideranno solo nelle ultime due settimane prima del voto.
La prima arma è se stesso: il suo governo come “unico argine contro i populismi” (la moderna Apocalisse, appunto, dove le élite in cerca di rilegittimazione scaricano giustamente, ma a volte troppo frettolosamente, tutti i nemici: da Trump a Orban, da Grillo a Salvini). Questo “cadornismo” referendario riposa su un assunto altrettanto populista, ma di presa sicura: votate sì, per mandare a casa i senatori fannulloni e per tagliare i “costi della casta”. Un’offerta che non si può rifiutare. Da proporre a un Paese stressato («Se non cambiamo adesso non cambieremo mai più») e da opporre alla minoranza di un Pd lacerato («Non si può tenere ferma l’Italia per tenere unito il partito»). Assiomi forti, politicamente e mediaticamente. Ma indimostrabile l’uno (chi ha detto che “dopo” non si possa cambiare?) e insostenibile l’altro (chi ha detto che correggendo l’Italicum si ferma l’Italia?).
Poco importa. La narrazione renziana, oggi più che mai, non contempla il dubbio, ma solo una cieca fiducia nel narratore, che riassume in sé tutto quello che serve (la falce della rottamazione, il martello della modernizzazione) e tutto quello che non serve più (l’identità della sinistra novecentesca, la ritualità della democrazia “bicamerale”).
Questa arma di Renzi (Renzi medesimo) è tagliente. Affonda facilmente nella carne tremula della minoranza Pd (che non ha saputo pronunciare al momento opportuno i “no che aiutano a crescere”, e che oggi fatica a spiegare non alla mitica casalinga di Voghera, ma a qualunque italiano medio di buon senso, il suo no al famoso “combinato disposto”). Forse persino nella carne inerte della destra berlusconiana, alla quale punta platealmente a succhiare “sangue” elettorale. Ma rischia di non incidere abbastanza sulla carne viva del Paese. Perché Renzi stesso, vero e unico frontman del sì per i prossimi due mesi, è quello che può spostare i voti a favore, ma anche quello che rischia di polarizzarli contro. Perché i popoli, dalla Costituzione europea fino a Brexit (senza arrivare alla Colombia sulle Farc) hanno preso questa pessima abitudine di usare i referendum per votare contro qualunque forma di establishment, quasi “a prescindere”. E perché soprattutto, al di là dei cambiamenti della Costituzione formale, quella che purtroppo non accenna a cambiare è la condizione materiale del Paese.
Per questo Renzi deve usare la seconda arma, forse per lui più importante e decisiva: la prossima manovra economica. Questo spiega lo strappo consumato dal ministro Padoan con l’Ufficio parlamentare di bilancio sui numeri del Def. E forse anche quello minacciato dal premier in persona con la Commissione europea sul deficit del prossimo anno. L’esigenza redistributiva coincide con l’urgenza referendaria. Questo vuol dire che ci saranno non molte risorse, ma sparse a pioggia su molte categorie. Ci aspetta una legge di stabilità da 25 miliardi, di cui 13,3 in deficit e 8,5 di nuove entrate. Poco ai pensionati, poco ai dipendenti pubblici, poco alle famiglie, poco alle imprese. Un’occasione mancata. La settimana scorsa la Germania di Angela Merkel ha annunciato un piano di abbattimento delle imposte per 6-7 miliardi. Handesblatt, il quotidiano della comunità finanziaria tedesca, non ha fatto sconti alla Cancelliera, e ha titolato “Zwei Cappuccino In Monat”: due cappuccini al mese. Da noi non saranno due cappuccini, ma magari tre pizze margherite. Forse bastano a vincere il referendum. Ma non certo a far ripartire l’economia.