Il Fatto 13.10.16
Riforma: il prezzo della lacerazione è troppo alto
di Franco Monaco
Tutti
invocano un confronto di merito. Auspicabile ma improbabile. Anche
nella recente direzione del Pd la discussione si è concentrata
pressoché esclusivamente sulla legge elettorale. Questione connessa ma
anche relativamente distinta. Da come si sono messe le cose e complice
la oggettiva complessità della materia, è probabile che a decidere
l’esito della consultazione siano motivazioni altre, non attinenti al
merito: rispettivamente la presa del tenore demagogico della campagna
del sì (fondato o meno sul piano giuridico il ricorso contro il
quesito, è di palese evidenza il suo carattere retorico e tendenzioso,
centrato sulla polemica anti-casta, come se con essa si possa motivare
una riforma organica della Costituzione) e, sul fronte opposto, il
proposito di battere Renzi da parte delle opposizioni. O comunque di
indebolirlo per propiziare dinamiche politiche altre, dentro il Pd e
fuori di esso. Chi propugna un confronto sul merito dovrebbe
accuratamente distinguere la questione politica da quella
costituzionale. Ma è soprattutto Renzi che ci ha messo del suo nel
confondere i piani. In tre modi: 1) dapprima nel
drammatizzare/politicizzare/personalizzare la contesa, salvo fare
tardivamente ammenda del suo errore; 2) nella conduzione di una campagna
referendaria dichiaratamente mirata a fare breccia nell’elettorato del
centrodestra e, per converso, insensibile alle lacerazioni nel popolo di
sinistra, così mostrando di non avere affatto archiviato la
suggestione del “partito della nazione”, avallando cioè l’impressione
di fare del referendum il laboratorio di una operazione politica
neocentrista; 3) nel reiterare e anzi nell’intensificare ora una
campagna da lui condotta in prima persona come capo del governo che, su
materia costituzionale, dovrebbe semmai mostrare misura. A RENZI
TUTTAVIA va riconosciuta un’attenuante: egli non aveva (non ha?) tutti i
torti nel legare la sorte del suo governo all’esito del referendum. Fu
proprio Napolitano, nel conferirgli l’incarico di premier, a fare
impropriamente della riforma costituzionale la ragione costitutiva del
suo esecutivo. Come di quello di Letta. Del resto, lo certifica lo
stesso Renzi nel rammentare che quello fu il mandato conferitogli e che
la riforma porta il nome di Napolitano. Lì sta la radice di ogni
contraddizione: avere fatto della più parlamentare delle materie,
quella costituzionale, la priorità di due governi. Usa denunciare la
contraddizione di FI, prima favorevole e poi contraria alla riforma. Ma
si dovrebbe riconoscere che, quando la riforma viene intestata al
governo anziché al Parlamento, si mettono le premesse perché,
cambiando le condizioni politiche, le forze di opposizione non si
sentano incoraggiate a un sostegno convinto; ad aiutare il governo a
incassare un risultato rivendicato come suo. Di più: avendo siglato al
Nazareno un patto per riscrivere le regole costituzionali ed elettorali,
non era irragionevole l'attesa di Berlusconi di concordare il nome del
supremo garante al Quirinale che si sarebbe scelto di lì a poco. Sia
lecito osservarlo, da parte di chi, come me, ha votato volentieri
Mattarella, un galantuomo che quantomeno ha ripristinato la neutralità
politica del Quirinale, in conformità al suo profilo costituzionale.
Per me è decisivo il prezzo della lacerazione che si consuma sulla
Legge fondamentale. Un prezzo troppo alto, fosse anche per la migliore
delle riforme. Esso pone le premesse perché, al prossimo cambio di
maggioranza, si rimetta mano di nuovo alla Costituzione. Sono per il No,
ma non pavento una deriva autoritaria renziana. Penso però al domani
e, con l’aria che tira in Europa e in Italia, non mi sento di escludere
maggioranze illiberali. Le regole costituzionali devono essere presbiti.
Possibile che non ci si pensi?