Repubblica 12.10.16
Tempo di oligarchie e di chiarimenti
A Scalfari rispondo che la democrazia è lotta per la democrazia e non è la classe dei privilegiati quella che può condurla
di Gustavo Zagrebelsky
L’OLIGARCHIA
è la sola forma di democrazia, ha sostenuto Eugenio Scalfari nei suoi
due ultimi editoriali su questo giornale. Ha precisato che le
democrazie, di fatto, sono sempre guidate da pochi e quindi altro non
sono che oligarchie. Non ci sarebbero alternative: la democrazia diretta
può valere solo per questioni circoscritte in momenti particolari, ma
per governare è totalmente inadatta. O meglio: un’alternativa ci
sarebbe, ed è la dittatura. Quindi — questa la conclusione che traggo
io, credo non arbitrariamente, dalle proposizioni che precedono — la
questione non è democrazia o oligarchia, ma oligarchia o dittatura.
Poiché, però, la dittatura è anch’essa un’oligarchia, anzi ne è
evidentemente la forma estrema, si dovrebbe concludere che la differenza
rispetto alla democrazia non è di sostanza.
SEGUE A PAGINA 29
TUTTI
I governi sono sempre e solo oligarchie più o meno ristrette e
inamovibili; cambia solo la forma, democratica o dittatoriale.
Nell’ultima frase del secondo editoriale, Scalfari m’invita cortesemente
a riflettere sulle sue tesi, cosa da farsi comunque perché la questione
posta è interessante e sommamente importante. Se fosse come detto
sopra, dovremmo concludere che l’articolo 1 della Costituzione
(“L’Italia è una repubblica democratica”; “la sovranità appartiene al
popolo”) è frutto di un abbaglio, che i Costituenti non sapevano quel
che volevano, che hanno scritto una cosa per un’altra. Ed ecco le
riflessioni.
Se avessimo a che fare con una questione solo
numerica, Scalfari avrebbe ragione. Se distinguiamo le forme di governo a
seconda del numero dei governanti (tanti, pochi, uno: democrazia,
oligarchia, monarchia) è chiaro che, in fatto, la prima e la terza sono
solo ipotesi astratte. Troviamo sempre e solo oligarchie del più vario
tipo, più o meno ampie, strutturate, gerarchizzate e centralizzate,
talora in conflitto tra loro, ma sempre e solo oligarchie. Non c’è
bisogno di chissà quali citazioni o ragionamenti. Basta la storia a
mostrare che la democrazia come pieno autogoverno dei popoli non è mai
esistita se non in alcuni suoi “momenti di gloria”, ad esempio l’inizio
degli eventi rivoluzionari della Francia di fine ‘700, finiti nella
dittatura del terrore, o i due mesi della Comune parigina nel 1871,
finita in un bagno di sangue. Dappertutto vediamo all’opera quella che è
stata definita la “legge ferrea dell’oligarchia”: i grandi numeri della
democrazia, una volta conquistata l’uguaglianza, se non vengono spenti
brutalmente, evolvono rapidamente verso i piccoli numeri delle cerchie
ristrette del potere, cioè verso gruppi dirigenti specializzati,
burocratizzati e separati. Ogni governo realmente democratico non è che
una fugace meteora. In quanto autogoverno dei molti, fatalmente si
spegne molto presto.
Tuttavia, la questione non è solo
quantitativa. Anzi, non riguarda principalmente il numero, ma il chi e
il come governa. Gli Antichi, con la brutale chiarezza che noi, nei
nostri sofisticati discorsi, abbiamo perduto, dicevano semplicemente che
l’oligarchia è un regime dei ricchi, contrapposto alla democrazia, il
regime dei poveri: i ricchi, cioè i privilegiati, i potenti, coloro che
stanno al vertice della scala sociale contro il popolo minuto. In questa
visione, i numeri perdono d’importanza: è solo una circostanza normale,
ma non essenziale, che “la gente” sia più numerosa dei “signori”, ma i
concetti non cambierebbero (dice Aristotele) se accadesse il contrario,
se cioè i ricchi fossero più numerosi dei poveri. Si può parlare di
oligarchia in modo neutro: governo dei pochi. Ma, per lo più, fin
dall’antichità, alla parola è collegato un giudizio negativo: gli
oligarchi non solo sono pochi, ma sono anche coloro che usano il potere
che hanno acquisito per i propri fini egoistici, dimenticandosi dei
molti. L’oligarchia è quindi una forma di governo da sempre considerata
cattiva; così cattiva che deve celarsi agli occhi dei più e nascondersi
nel segreto. Questa è una sua caratteristica tipica: la dissimulazione.
Anzi, questa esigenza è massima per le oligarchie che proliferano a
partire dalla democrazia. Gli oligarchi devono occultare le proprie
azioni e gli interessi particolari che li muovono. Non solo. Devono
esibire una realtà diversa, fittizia, artefatta, costruita con discorsi
propagandistici, blandizie, regalie e spettacoli. Devono promuovere
quelle politiche che, oggi, chiamiamo populiste. Occorre convincere i
molti che i pochi non operano alle loro spalle, ma per il loro bene.
Così, l’oligarchia è il regime della menzogna, della simulazione. Se è
così, se cioè non ne facciamo solo una questione di numeri ma anche di
attributi dei governanti e di opacità nell’esercizio del potere,
l’oligarchia, anche secondo il sentire comune, non solo è diversa dalla
democrazia, ma le è radicalmente nemica. Aveva, dunque, ragione Norberto
Bobbio quando denunciava tra le contraddizioni della democrazia il
“persistere delle oligarchie”. Se ci guardiamo attorno, potremmo dire:
non solo persistere, ma rafforzarsi, estendersi “globalizzandosi” e
velarsi in reti di relazioni d’interesse politico-finanziario, non prive
di connessioni malavitose protette dal segreto, sempre più complicate e
sempre meno decifrabili. Se, per un momento, potessimo sollevare il
velo e guardare la nuda realtà, quale spettacolo ci toccherebbe di
vedere?
Annodiamo i fili: abbiamo visto che la democrazia dei
grandi numeri genera inevitabilmente oligarchie e che le oligarchie sono
nemiche della democrazia. Dovremmo dire allora, realisticamente, che la
democrazia è il regime dell’ipocrisia e del mimetismo, un regime che
produce e nutre il suo nemico: il condannato che collabora
all’esecuzione della sua condanna. Poveri e ingenui i democratici che in
buona fede credono nelle idee che professano!
C’è del vero in
questa visione disincantata della democrazia come regime della
disponibilità nei confronti di chi vuole approfittarne per i propri
scopi. La storia insegna. Ma non ci si deve fermare qui. Una legge
generale dei discorsi politici è questa: il significato di tutte le loro
parole (libertà, giustizia, uguaglianza, ecc.) è ambiguo e duplice,
dipende dal punto di vista. Per coloro che stanno in cima alla piramide
sociale, le parole della politica significano legittimazione
dell’establishment; per coloro che stanno in fondo, significa il
contrario, cioè possibilità di controllo, contestazione e
partecipazione. Anche per “democrazia” è così. Dal punto di vista degli
esclusi dal governo, la democrazia non è una meta raggiunta, un assetto
politico consolidato, una situazione statica. La democrazia è conflitto.
Quando il conflitto cessa di esistere, quello è il momento delle
oligarchie. In sintesi, la democrazia è lotta per la democrazia e non
sono certo coloro che stanno nella cerchia dei privilegiati quelli che
la conducono. Essi, anzi, sono gli antagonisti di quanti della
democrazia hanno bisogno, cioè gli antagonisti degli esclusi che
reclamano il diritto di essere ammessi a partecipare alle decisioni
politiche, il diritto di contare almeno qualcosa.
Le costituzioni
democratiche sono quelle aperte a questo genere di conflitto, quelle che
lo prevedono come humus della vita civile e lo regolano, riconoscendo
diritti e apprestando procedimenti utili per indirizzarlo verso esiti
costruttivi e per evitare quelli distruttivi. In questo senso deve
interpretarsi la democrazia dell’articolo 1 della Costituzione, in
connessione con molti altri, a incominciare dall’articolo 3, là dove
parla di riforme finalizzate alla libertà, all’uguaglianza e alla
giustizia sociale.
Queste riflessioni, a commento delle
convinzioni manifestate da Eugenio Scalfari, sono state occasionate da
una discussione sulla riforma costituzionale che, probabilmente, sarà
presto sottoposta a referendum popolare. Hanno a che vedere con i
contenuti di questa riforma? Hanno a che vedere, e molto da vicino.