mercoledì 12 ottobre 2016

Repubblica 12.10.16
Il Poeta e il Dittatore “Il mio Neruda è un cocktail di sogni”
Il regista cileno Pablo Larraín racconta il suo film prima accolto in modo controverso in patria, poi candidato all’Oscar: “L’ho scoperto a scuola ma l’ho capito solo dopo”
di Arianna Finos

ROMA PABLO Neruda secondo Pablo Larraín. Il sommo poeta comunista raccontato dal talentuoso regista figlio dell’oligarchia di Pinochet. Candidato per il Cile agli Oscar, accolto in modo controverso in patria, Neruda è una nuova pagina con cui il quarantenne rampollo dell’ex potente ministro Magdalena Matte prosegue la rilettura critica della storia cilena e degli orrori del regime, dopo Tony Manero, Post mortem e No. Cambiando, anche stavolta, registro. Più sentimentale e onirico, dall’anima nerudiana. Il film, in sala domani, è ambientato nel 1948, quando il senatore Pablo Neruda denuncia pubblicamente il governo connivente con gli Stati Uniti. Il Golpe del 1973 è lontano, ma Neruda è costretto alla clandestinità dal governo di Gabriel González Videla, che ne affida la caccia all’ispettore Oscar Peluchonneau. Pablo Larraín, all’incontro in un albergo in via Veneto, ha abbandonato la diffidenza di qualche anno fa, si racconta con calore e senza pudore.
Perché Neruda?
«L’idea è stata di Juan de Dios, mio fratello e produttore dai tempi di Post Mortem. Gli ho detto che era pazzo. Come avrei potuto farlo parlare? Ci siamo rivolti a Guillermo Galderòn che già nella prima stesura è riuscito a dare la parola a Neruda. Qualche anno dopo abbiamo scoperto l’esistenza di Oscar Peluchonneau. Era quella la chiave. Cambiare il punto di vista, vedere il mondo con i suoi occhi. Mi sono rilassato. Neruda per noi cileni è ovunque: nell’aria, nell’acqua, negli alberi. Ha definito il nostro paese e il nostro linguaggio come nessun altro».
Quando ha scoperto la sua poesia?
«A scuola, avrò avuto dieci anni. Per questo cercavo di prenderne le distanze come da qualcosa che è imposto. Poi, per scegliere le poesie del film ho letto tutto Neruda in due anni».
Cosa ha scoperto?
«Che di lui avevo un’idea superficiale. Era esperto in cucina, vino, viaggi. Era un diplomatico, collezionista, senatore. Avrebbe potuto diventare il presidente del Cile, se non avesse fatto un passo indietro per favorire Salvador Allende. Cosa sarebbe accaduto se fosse stato eletto? Ecco un’altra storia da film: che succede quando è un poeta a guidare un paese? Neruda ha plasmato il Cile. Il mio è un anti-biopic, non un film su Neruda, ma sul suo cosmo. Su noi che abbiamo fatto il film dopo aver assorbito la sua vita e la sua opera. Neruda è un cocktail di sogni, un cuscino su cui poggi la testa e chiudi gli occhi. È capace di descriverti prima ancora che tu sia nato. È come Pasolini: non potrei immaginare il mondo senza Pasolini. Ma, proprio per questo, Neruda è incatturabile. Allora devi giocare in modo libero, senza metterlo in una scatola. Non andate a vedere il film per sapere chi era Neruda».
È un film pensato come una poesia di Neruda.
«Sì. È stata questa, l’ossessione. Due settimane prima del set mio fratello Juan mi chiama: “Pablo, siamo fuori budget, devi tagliare una settimana di riprese, venti pagine di copione”. Guillermo vola da New York, ci chiudiamo in una stanza. Lavoriamo come pazzi e alla fine ne aggiungiamo altre venti. Ho spiegato a cast e troupe la nostra missione. Abbiamo deciso che Neruda avesse solo un paio di vestiti. Ho girato più che potevo e poi ho portato il meglio al montaggio. Alla fine tutto ha avuto una logica. Ma prima è stato necessario fabbricare l’incidente. Io non voglio cambiare il mondo, non ho questo potere. Io fabbrico incidenti che non controllo e che diventano un’esperienza nuova da condividere».
La poesia di Neruda l’ha cambiata?
«Molto. Ha cambiato il mio rapporto con il mio paese, mi ha reso consapevole di quanto amo la mia gente e la mia storia, che voglio rispettare e proteggere. Dal punto di vista personale ho capito che bisogna rischiare. Per farlo hai bisogno di persone che lavorano al servizio della tua ambizione, diventando una famiglia artistica. Lo sono i miei attori, Luis Gnecco, Gael Garcia Bernal, Alfredo».
Quali sono state le reazioni in Cile?
«È stato scritto il meglio e il peggio che si può dire di un film. Ai tempi di No qualcuno disse che delegittimava chi combatteva Pinochet, perché invece delle torture raccontava la storia del pubblicitario per la campagna del No. La gente non ama le metafore, legittima solo ciò che pensa già. Di Neruda ognuno ha una sua idea personale. Incarnarlo in un corpo è impossibile. Questo è il problema del cinema, il motivo per cui Garcia Lorca non ha dato mai i diritti di Cent’anni di solitudine.
Noi abbiamo dato un corpo fisico a Neruda, molti lo hanno odiato. Perfetto: non voglio essere amico di chi guarda il film, sono qui per porre un problema e invitare la gente a portarlo con sé».
Anche per la sua storia personale, lei ha un rapporto non facile con il suo paese.
«È difficile parlarne. Non amo lamentarmi in pubblico. È complicato e doloroso. Sono abituato al fatto che le peggiori recensioni arrivano dal mio paese».
Il film è il candidato all’Oscar per il Cile.
«In molti hanno capito perché abbiamo voluto giocare con la sua figura, anche se ci insegnano a non giocare con gli dei. Quando abbiamo iscritto il film alla Quinzaine a Cannes era obbligatorio indicare il genere. Ho chiamato il festival perché lo spazio restasse vuoto. Neruda è un noir, una black comedy, un road movie, un western. Un film su Neruda non puoi metterlo in una scatola: devi viaggiare libero nella sua poesia».
Come ha reagito la Fondazione Neruda?
«Una serie di appunti e correzioni, ma poi alla fine hanno detto: “Fate ciò che volete”. Hanno capito che Neruda non appartiene a loro, ma a ciascuno di noi. Quando ha vinto il Nobel, nel discorso Neruda ha ricordato così i suoi anni in fuga: “Non so se li ho vissuti, sognati o scritti”. Ecco, questo è il nostro film».