mercoledì 12 ottobre 2016

La Stampa TuttoScienze 12.10.16
“Noi Sapiens, intelligenti (ma neanche troppo) e per caso”
A BergamoScienza un darwinista reinterpreta Darwin
di Marco Cambiaghi

«Il modello tradizionale di evoluzione non solo è totalmente errato, ma è anche piuttosto triste». Questa affermazione, molto forte, racchiude il pensiero rivoluzionario di Henry Gee, paleontologo e senior editor di «Nature», una delle più influenti riviste scientifiche internazionali.
Gee aggiunge una postilla importante: non dobbiamo credere che la storia che ci hanno raccontato finora sia quella giusta. La storia, da che mondo è mondo, la scrivono i vincitori e quella dell’evoluzione umana non fa eccezione. Chi si è estinto non è qui a raccontare la propria versione dei fatti. Nel saggio «La specie imprevista. Fraintendimenti sull’evoluzione umana», edito da Il Mulino, Gee lancia una proposta radicale: dobbiamo ridurre le pretese di una disciplina affidata a un numero esiguo di fatti, diffidando da facili ricostruzioni e da «anelli mancanti».
Il concetto non è però di facile comprensione. Siamo abituati a pensare all’evoluzione come a un processo lineare, dallo scimmione ingobbito all’uomo davanti al pc. Un’immagine in cui siamo noi - i vincitori - a rappresentare il culmine dell’evoluzione, il miglior risultato possibile. Gee con la sua teoria spazza via questa idea antropocentrica, così come fecero Galileo e Copernico con il Sistema solare, per rivedere i nostri rapporti con le altre specie. I tempi sono fortunatamente cambiati rispetto al XVII secolo e Gee non deve temere l’Inquisizione, tant’è che domenica scorsa, a BergamoScienza, ha spiegato le sue ragioni non di fronte a un tribunale ma davanti a un pubblico molto interessato: «Dobbiamo smetterla di pensare che siamo speciali. O meglio, lo siamo quanto lo è un insetto che vola o un lombrico che vive sottoterra… o un geranio».
Il concetto di Gee è che l’evoluzione in sé non implica alcuna forma di progresso o miglioramento. L’uomo è quindi una specie imprevista (accidentale, nel titolo in lingua originale), a significare che siamo non solo uno dei possibili risultati del processo evolutivo, ma anche un risultato non essenziale. Il momento in cui il senior editor di «Nature» è arrivato a questa conclusione ha una data precisa, il 3 marzo 2004, quando in redazione gli arriva la notizia di una scoperta inattesa e sensazionale: in una caverna dell’isola di Flores, in Indonesia, è stato ritrovato lo scheletro di un individuo che non apparteneva a un umano moderno, ma a un omino di circa un metro e con un cranio non più grande di quello di uno scimpanzé, eppure con una somiglianza con quelli umani disarmante. Il fossile non venne datato oltre i 18 mila anni, un attimo fa, evoluzionisticamente parlando.
Un nostro parente stretto, chiamato Homo floresiensis, era quindi vissuto contemporaneamente a noi umani moderni, finché qualche evento (o qualcuno) lo eliminò, forse proprio l’Homo sapiens. Che un’altra specie abbia convissuto assieme a noi non è tuttavia un’eccezione: non più di 50 mila anni fa sulla Terra vivevano contemporaneamente quattro specie di ominini: Homo sapiens, Neanderthal, Homo erectus e il Denisoviano. Poi ci siamo ritrovati da soli. Perché? Gee ha una risposta: perché siamo una «specie accidentale» e attacca quindi l’abuso che si fa del termine «evoluzione»: «Darwin nell’Origine delle Specie non usò la parola “evoluzione” fino all’edizione del 1872 e, quando lo fece, non la utilizzò nel senso a cui ci riferiamo noi oggi. Per intendere il mutamento graduale di una specie - continua - si usava la parola “trasformazione”, mentre con evoluzione ci si riveriva all’evolversi di un organismo, dal seme alla pianta, dall’uovo all’adulto. Oggi, invece, i due processi hanno finito per confondersi e confonderci».
Inoltre - dimostra brillantemente Gee - l’evoluzione non ha memoria e non fa piani: siamo noi, con la nostra cultura, a voler vedere un’idea di progresso in ogni cosa. «Guardando indietro, non si può negare che il progresso appaia naturale e inevitabile, ma si tratta di una prospettiva limitata, perché non prende in considerazione la possibilità di percorsi alternativi. L’Homo floresiensis poteva esserlo!». La storia dell’evoluzione non è quindi una retta, ma assomiglia a un intricato cespuglio, del quale noi siamo il risultato di uno dei tanti rami. «Tuttavia - ammonisce ancora Gee - di questo e degli altri rami noi non conosciamo quasi nulla, se non alcuni frammenti, insufficienti per capire chi erano i nostri avi, che li si chiamino padri, nonni o altro ancora. Al più, quello che possiamo dire con maggior certezza è che siamo tutti “cugini”».
Il risultato, di fatto, è che non possiamo sapere chi c’era veramente prima di noi. Con i pochi fossili che si ritrovano non è possibile ricostruire il cespuglio che abbiamo alle spalle. A ben pensarci l’idea è poco rassicurante, così come 400 anni fa lo era pensare di non essere al centro dell’Universo. E tuttavia Gee ci dice che non dobbiamo avere paura: «La conoscenza è formata da cose che sappiamo di sapere, come 1+1=2 - era vero ieri e lo sarà domani - ma anche da cose che sappiamo di non sapere e, ancora, da cose che non sappiamo di non sapere: queste ultime due categorie sono il motore della scienza, quello che ci deve spingere a conoscere sempre di più per poterci fare nuove domande».