Repubblica 11.10.16
“L’Occidente non è il centro di nulla”
Intervista
ad Ashis Nandy, studioso della “decolonizzazione” indiana e critico
delle politiche americane ed europee ostili agli immigrati
di Giancarlo Bosetti
Ashis
Nandy è fra i protagonisti di “ Identità e democrazia in un’epoca di
paura” , il convegno internazionale di Reset-Dialogues on Civilizations
che si terrà dal 12 al 14 ottobre alla Fondazione Cini di Venezia in
collaborazione con l’Università di Ca’Foscari e la Fondazione FIND
Ashis
Nandy vede venditori di nazionalismo far danni in tutto il mondo,
compresa la sua India. Ma qui questa ideologia mescolata prima al
secolarismo del modello Nehru, ora all’induismo di Narendra Modi non ha
funzionato bene, tanto meno ora. Il celebre intellettuale, psicologo e
sociologo, – 78 anni – ha fatto sua la battuta di Rabinandrath Tagore,
uno dei padri della moderna India: l’impresa di costruire un
nazionalismo indiano è tanto assurda quanto per la Svizzera sarebbe
quella di darsi una marina militare. Ma Nandy è prima di tutto studioso
della mentalità coloniale. Ha lavorato per la «decolonizzazione» della
mente indiana e la liberazione dal suo «nemico intimo»: gli inglesi. Si è
occupato dei poteri coloniali europei, tra i quali ha individuato i
«perdenti nel Primo Mondo», con il loro «machismo», o come meglio dice
lui, il loro «androcratico dominio».
E dunque la prima cosa che le chiedo è: se la mente indiana è da decolonizzare che cosa si ha da fare con la mente europea?
«Sono
d’accordo con la formula che piace a Taylor e Chakrabarty: smetterla di
immaginarsi come il centro. Ma aggiungo che il «West», Europa e Nord
America, in virtù dell’esperienza coloniale con il «Rest », sono
portatori di un trionfalismo e della visione del proprio stile di vita
come superiore a quello di altre parti del mondo. E banalmente osservo
che il mondo non ha il genere di risorse che serve per produrre una
mezza dozzina di Stati Uniti d’America. In Europa va un po’ meglio, ma
non riesco a credere a quanto gli europei siano ostili verso gli
immigrati, a quanto esageratamente pensino che il loro arrivo possa
rendere la loro esistenza miserabile. Hanno invece qualcosa di
importante da imparare».
Che cosa?
«Quello
che è vero per l’Europa come è vero per l’India e per tutti: una certa
apertura ad altri stili di vita e di pensiero è necessaria ed implica
che, in alcuni casi, i livelli dei consumi debbano abbassarsi, invece di
salire. C’è qualcosa di sbagliato nella difficoltà europea e americana
di affrontare questa possibilità. La nostra idea di progresso è viziata
dal dogma della crescita perpetua. Nel 1972 il Club di Roma ha prodotto
un manifesto intitolato ai “limiti dello sviluppo”. E ora? Non
riusciremo a rendere popolare la “crescita zero”, ma almeno prepariamo
la gente a uno stato di cose in cui si dica: “Va bene, è abbastanza, non
vogliamo crescere di più”».
Lei, bengalese,
ha vissuto la separazione tra musulmani e induisti, la nascita del
Pakistan e poi del Bangladesh. Avvennero quelle che restano forse le più
grandi migrazioni umane della storia.
«Appartengo
al Bengala. E lì ho assistito alla stessa ostilità nei confronti degli
immigrati, un numero altissimo di rifugiati, quasi dieci milioni in un
colpo solo. E poi ancora molti altri. Fu una catastrofe. E lo stesso è
accaduto nel Punjab, il Pakistan a occidente. Anche quando il governo ha
cercato di trattare bene i profughi, mostrandosi aperto nei loro
confronti, le stesse comunità di appartenenza, gli stessi parenti! sono
stati ben più ostili e implacabili».
Ma che cosa è il nazionalismo in India? Ci sono sondaggi secondo i quali l’India è il paese più nazionalista al mondo.
«A
dispetto di questi dati le dico che il nazionalismo non è un’opzione
qui di successo, perché è troppo specifico per soddisfare i bisogni di
tutti gli indiani. L’India è caratterizzata da una serie di anelli
comunitari concentrici, e ciascun individuo non appartiene solo a una,
ma a una serie di comunità, dal paese alla regione, fino al gruppo
linguistico, alla setta, alla religione e, infine, alla casta. Il quadro
è davvero molto complesso. Ogni comune individuo indiano, vive un “io”
sfaccettato, ma ci si trova abbastanza a suo agio, perché è abituato a
questa varietà».
«Sono antisecolarista», lei ha detto una volta.
«Il
progetto secolare era tarato nella sostanza. Partiva dal presupposto
che, così come in Europa, la religione si indebolisse. La gente si
dichiarava non credente, agnostica o atea e molto spesso l’ideologia ha
fatto da surrogato della religione. Ci si aspettava che quelle ideologie
servissero a fornire una struttura etica alle nostre esistenze
pubbliche, ma così la sfera pubblica è apparsa dominata dalla legge
della giungla, priva di valori, in preda alla anomia».
Ha
ragione allora il filosofo cattolico tedesco, Wolfgang Boeckenfoerde
che dice: «Gli stati liberali e secolari vivono di premesse che non sono
capaci di riprodurre»?
«Il problema nasce
prima dello stato liberale, con la Rivoluzione francese e il
giacobinismo: senza terrore nulla si ottiene. Tale convinzione si è
radicata nel profondo nella cultura delle élites del potere e da lì sono
penetrare in profondità nel complesso della società intera. La società
tedesca dopo la Prima Guerra mondiale era alla deriva dal punto di vista
morale, e l’ascesa del nazismo si collega a questa crisi della vita
pubblica. L’Illuminismo europeo ha prodotto di tutto: grandi pensatori,
grandi innovatori, grandi riformatori sociali, grandi scienziati, ma non
ha prodotto un pensatore che abbia dato priorità alla non violenza, un
aspetto cruciale nella vita pubblica del nostro tempo».
Lei propone una alternativa al secolarismo, cerca nuovi concetti.
E che nome darebbe a questa alternativa?
«Pluralismo
culturale è un termine abbastanza consono, perché ogni sistema
religioso, in questa parte del mondo, può dare il suo contributo, anche
il cristianesimo, quello di San Francesco d’Assisi. In quest’area del
mondo Chiesa e Stato non sono così distinti, perché non esiste una
Chiesa. Ciò rende il contesto caotico ed eterogeneo, ma facilita anche
l’instaurarsi di un dialogo».
Quella in corso è la recrudescenza del nazionalismo induista e sta vanificando il progetto laico.
«Il
progetto nazionalista induista è un prodotto diretto del progetto
secolarista, perché la persona che l’ha istituito era un ateo
dichiarato. Sia il leader degli induisti, che ha prodotto la Bibbia del
nazionalismo (Vinayak Damodar Savarkar) sia il leader del nazionalismo
musulmano, che ha forgiato nel subcontinente uno Stato musulmano, il
Pakistan (Mohammad Ali Jinnah), erano entrambi personalità non religiose
e nutrivano un profondo disprezzo nei confronti dei comuni induisti e
dei comuni musulmani».
Un’ideologia contro la natura del popolo cui è stata imposta.
«Il
disprezzo nei confronti degli induisti e dei musulmani è iscritto
chiaramente nelle vite e nelle opere di quei due campioni. Si è trattato
dello sfruttamento di una identità religiosa per consolidare una
convivenza democratica. È un po’ come quello che è accaduto in
Palestina. Lì le relazioni tra ebrei e musulmani e virtualmente ovunque,
in Magreb, nell’impero ottomano, nella Spagna dei mori, erano migliori
che nel resto d’Europa. Oggi invece si azzuffano come cani e gatti e
questa contrapposizione va avanti in Palestina da sessantacinque anni.
Così in Asia meridionale si azzuffano musulmani e induisti da
sessantacinque anni. Non ha funzionato e ancora non vedo una facile via
d’uscita».