Repubblica 10.10.16
Shostakovich
Vittima di Stalin o
allineato al regime? Il nuovo romanzo di Julian Barnes riapre la
polemica sul compositore russo. E sul fascino ambiguo della musica
di Gregorio Botta
Fino
ad allora era andato tutto bene, o quasi. Aveva 29 anni ed era un
artista ovunque acclamato: qualche suo motivo veniva persino
fischiettato per strada. Anche l’ultima fatica “Una Lady Macbeth del
distretto di Mcensk” – storia scandalosa di una moglie che uccide
suocero e marito, per proteggere il suo amante raccontata da una musica
estrema – era stata fino ad allora accolta, in Urss, Europa e America,
dalle ovazioni del pubblico e da magnifiche recensioni. La chiamavano la
“nuova lirica russa”. Il Bolshoi l’aveva messa in scena 83 volte: ma
quella sera, il 26 gennaio del 1936, Stalin decise di assistere alla
84esima replica. Il dittatore si fece accompagnare da Molotov, Mikojan e
Zdanov, il feroce ideologo del realismo socialista. Al quarto atto il
palco delle autorità apparve deserto: quel vuoto equivaleva ad un
verdetto. Che infatti appare sulla Pravda due giorni dopo. Il titolo
diceva tutto: “Caos anziché musica”. Il reato era il peggiore possibile
per l’epoca: “Formalismo”. Quel capo d’accusa trasformò per sempre la
vita di Dimitrij Shostakovich: fu l’inizio di un inesorabile percorso di
umiliazione e espropriazione di sé. Il regime prima lo terrorizzò, poi
lo usò, mostrandolo all’Occidente come un fiore all’occhiello, vanto e
strumento del potere sovietico.
Il rumore del tempo (Einaudi),
l’ultimo romanzo di Julian Barnes, rapsodico diario immaginario del
grande compositore russo, una sorta di flusso di coscienza scritto in
terza persona, parte proprio da quel 26 gennaio. L’autore divide il suo
libro – come se fosse un’opera musicale – in tre atti, aperti da un
prologo e chiusi da un finale che al prologo ritorna. Tutti e tre i
capitoli cominciano con la stessa frase: «Sapeva che quella era la volta
peggiore». Perché c’è sempre una volta peggiore: non c’è limite nella
lenta discesa agli inferi cui il regime costringe i suoi sudditi. Fino a
spezzarli: «Al di sotto di una certa soglia è questo che diventano gli
uomini: sistemi di sopravvivenza». È il destino di Shostakovich. Nel
primo capitolo lo troviamo di notte, in piedi, sul pianerottolo di casa.
Accanto a sé ha una valigetta con le cose essenziali. A quei tempi, i
tempi del Grande Terrore, molti russi avevano la valigia pronta, in
attesa di essere arrestati. Anche il musicista è sicuro di finire in
carcere, dopo quella condanna minacciosa della Pravda. La paura lo
domina. Ma non sarà arrestato, se la caverà con un grottesco
interrogatorio, e un anno dopo sarà anzi riabilitato grazie alla Quinta
Sinfonia, che viene accolta da quaranta minuti di applausi. Gli scriba
di Zdanov la sdoganano come l’opera che segna il pentimento del
musicista “rieducato”, tornato sulla retta via dell’arte popolare. Che
sia davvero così è tuttora oggetto di discussione.
Shostakovich è
salvo, ma vivrà per sempre nella paura. Finita la guerra, Stalin gli
chiede di andare in America a parlare di pace, arte e rivoluzione nel
nome della grande repubblica socialista. E lui, che sognava di
incontrare l’amato Stravinskij, si ritrovò ad attaccarlo in pubblico
senza neanche saperlo. Succedeva così: gli consegnavano testi già
scritti, lui pronunciava le prime frasi in russo, poi lasciava che il
traduttore snocciolasse tutto il resto in inglese. Non leggeva neanche
ciò che gli avrebbero messo in bocca: sperava che questo stratagemma
bastasse, che un estremo scudo di distanza ed ironia potesse salvarlo
dall’apparire come un alfiere della cultura staliniana. Ma l’ironia ha i
suoi limiti; può guastarsi in sarcasmo. «E a che serve a quel punto? Il
sarcasmo è l’ironia dopo che ha perduto l’anima». L’America fu la sua
“seconda volta peggiore”. La terza fu la più inspiegabile. Non poteva
dire no a Stalin e restare vivo, ma forse avrebbe potuto resistere a
Krusciov. Invece l’estrema capitolazione avvenne proprio ai tempi del
disgelo con l’iscrizione al Pcus, che era riuscito ad evitare negli anni
del Grande Terrore. E conseguenti firme ad articoli mai scritti contro
gli amati Sacharov e Solgenitsyn. Shostakovich odiava tutto questo e si
odiava: carico di onori e privilegi, era un uomo spezzato, piegato da
decenni di terrore. Era nato – scrive Barnes – “sotto una stella
vigliacca”. Ma la sua non è una condanna, anzi: il romanzo è un cantico
del dolore e dell’umiliazione che dimostra una profondissima pietà per
l’odissea di Shostakovich. «Essere vigliacco non è facile, molto più
facile essere un eroe. A un eroe basta mostrarsi coraggioso per un
istante, quando la lancia una bomba, attiva il detonatore, fa fuori il
tiranno e poi se stesso. Essere vigliacco significa imbarcarsi in
un’impresa che dura una vita».
Julian Barnes ama definirsi uno
scrittore trans-genere, (vista la facilità con cui cambia generi
letterari) e si irrita alla definizione di “romanzo biografico”: «È
volgare – dice – Tutti i romanzi sono biografici, Madame Bovary era lo
studio di Emma Bovary e così Anna Karenina. È solo che in alcuni romanzi
i protagonisti sono reali e in altri no». Ma qui non è così semplice.
Non a caso molti giornali hanno affidato la recensione a esperti di
musica e non di letteratura: e non tutti hanno apprezzato. Il punto è
questo: Il rumore del tempo ha riacceso una polemica che ha scosso il
mondo degli studiosi fin dal 1979, da quando apparve il libro
Testimony
di Solomon Volkov che cambiava l’immagine del musicista russo. Fino ad
allora era stato visto come un grande artista, ma allineato al regime.
Volkov sosteneva invece che era sempre stato una vittima, segretamente
ribelle, pieno di rimorsi e sensi di colpa. Le testimonianze raccolte da
Volkov erano autentiche e credibili? Le discussioni sono state talmente
accese da essere state definite “Le guerre di Shostakovich”: e hanno
prodotto una miriade di pagine a favore o contro, convegni infiammati in
cui gli studiosi si insultavano. Ad esempio: la Quinta Sinfonia. Il
Potere la battezzò con un grottesco ossimoro “Tragedia ottimistica”. «È
la risposta creativa di un artista sovietico a critiche fondate». Ma era
davvero un autodafé? Quel movimento finale era una marcia trionfale
scritta secondo i dettami zdanoviani o una sottile parodia, una
grottesca partitura colma di sprezzante ironia? Ancora oggi gli esperti
discutono: se l’intento dissacrante fosse stato così evidente – ha
notato il musicologo Richard Taruskin – Shostakovich non sarebbe
sopravvissuto: «Non c’erano dissidenti nella Russia di Stalin». Non
vivi, almeno. D’altronde, la musica è protetta da una sua tale ricchezza
di senso che può permettersi anche una certa ambiguità: i pittori non
hanno goduto dello stesso privilegio, e per questo Zdanov riuscì a
trasformare la patria dell’arte astratta nel regno triste del Soviet
kitsch. Con la musica fu più difficile. Barnes, comunque, sposa la tesi
del messaggio iconoclasta della Quinta: è l’unico momento in cui il
libro parla davvero di musica, che è la grande assente del romanzo. Come
componeva Dmitrij Dmitrievic? Come resisteva alle pressioni di Mosca
sui suoi spartiti? Barnes non si avventura su questo terreno: d’altronde
il suo è un libro sul Potere, più che sull’artista. In scena vanno i
meccanismi feroci, sottili ed arbitrari di un regime che calpesta ogni
libertà.
Il rumore del tempo è anche il titolo di un testo di Osip
Mandelstam: il grande poeta vittima di Stalin, definiva così il rumore
prodotto della storia. Ma per Barnes c’è un’altra storia che produce un
suono più sottile e profondo: «La musica del nostro essere, se sarà
abbastanza forte e pura e autentica da annegare il rumore del tempo, si
trasformerà nel mormorio della storia». Ecco, un mormorio, un sussurro.
Shostakovich sognava che qualcuno potesse percepirne la bellezza,
dimenticando le vergogne e gli orrori del suo tempo. Ma il rumore, per
ora, ancora non si è spento.
IL LIBRO Il rumore del tempo di Julian Barnes (Einaudi, traduzione di Susanna Basso pagg. 191, euro 18,50)