Corriere 10.10.16
Eugenio, il Savoia austriaco
di Alessandro Barbero
L’identità
di un Paese si regge anche sulla narrazione del passato. In Italia, dal
Risorgimento fino all’ultimo dopoguerra, ha avuto un’eco importante il
mito della dinastia guerriera dei Savoia e della vocazione bellicosa del
Piemonte, dal cui piccolo esercito traeva la sua genealogia l’esercito
italiano.
Un mito non è necessariamente inventato di sana pianta.
Alla fine del Seicento l’ambasciatore veneziano a Torino scriveva: «Il
signor Duca di Savoia si può gloriare di essere l’unico principe
d’Italia che tiene vivo nei suoi popoli l’antico valore della nazione».
Gli italiani impoveriti si ricordavano ancora che nel Rinascimento erano
loro a dominare i campi di battaglia, e consideravano con malinconia la
smilitarizzazione dei loro piccoli Stati, con un’unica eccezione,
appunto: il Piemonte sabaudo. Ma perché su questa base si sviluppasse un
mito dal potente impatto propagandistico occorreva un evento fondante: e
quell’evento ebbe luogo quando nell’estate del 1706 gli eserciti del Re
Sole, invaso e devastato il Piemonte, misero l’assedio a Torino.
La
trasformazione dell’assedio in epopea cominciò quando il soldato Pietro
Micca si sacrificò per far saltare in aria una galleria sotterranea
invasa dai francesi. E pazienza se la verità è forse che il sergente
furiere, per risparmiare, gli aveva dato una miccia troppo corta, come
suggerì Umberto Eco in una memorabile Intervista impossibile . Pietro
Micca è diventato un eroe di quella storia d’Italia che una volta si
insegnava ai bambini, insieme a Pier Capponi, Francesco Ferrucci,
Balilla e Enrico Toti. La scoperta che il duca ricompensò la vedova
dell’eroe assegnandole come vitalizio una razione di pane al giorno ha
poi autorizzato i soliti pettegolezzi sull’avarizia dei Savoia; ma i
tempi erano duri, e il Paese povero.
Il mito in gestazione assunse
la forma definitiva il 7 settembre 1706, quando un esercito
austro-piemontese al comando del principe Eugenio di Savoia sbaragliò
l’esercito assediante alle porte di Torino. Fu una vittoria schiacciante
contro ogni aspettativa: i francesi erano trincerati lì da mesi e la
città affamata era ormai sul punto d’arrendersi; l’esercito di soccorso,
arrivato dalla pianura padana seguendo il corso del Po, si trovò
davanti il nemico poderosamente fortificato, in posizioni impossibili da
prendere d’assalto. C’era un solo punto debole nelle linee trincerate, a
ovest, in direzione della Francia, da dove i marescialli francesi
davano per scontato di non poter essere attaccati. Che Eugenio si sia
proposto di attraversare con l’esercito il Po sotto il loro naso e
attaccarli proprio lì, dove in caso di insuccesso non avrebbe avuto via
di scampo, è una concezione di un’audacia che rasenta la temerarietà.
Evidentemente era convinto di poterci riuscire e ci riuscì: preso alla
rovescia, l’esercito francese rischiò d’essere buttato nel Po, e si
liquefece in una marea di fuggiaschi, abbandonando al nemico tutti i
suoi magazzini, i suoi cannoni, la cassa e più di 5.000 prigionieri.
E
così il principe Eugenio entrò nella leggenda militare sabauda, oltre
che in quella austriaca e tedesca: caso più unico che raro, per cui al
suo nome fu dedicata una corazzata austro-ungarica nella Prima guerra
mondiale, e nella Seconda un incrociatore tedesco ( Prinz Eugen ) e uno
italiano ( Eugenio di Savoia ). Nella loro canzone più famosa, i soldati
austriaci cantavano Prinz Eugen, der edle Ritter («Il principe Eugenio,
il nobile cavaliere») e quelli piemontesi ricordavano l’assedio di
Torino cantando, in piemontese, «Prinssi Geniô a l’è rivà/ côn ‘l saber a
la man» («Il principe Eugenio è arrivato/ con la sciabola alla mano»);
il che, in verità, è abbastanza curioso dato che l’eroe vincitore dei
francesi, secondo Voltaire, era «un francese, ché non si può definire
altrimenti il principe Eugenio»!
In effetti la caratteristica più
spiccata del principe Eugenio, che è uno dei più grandi generali di
tutti i tempi, è che non si riesce a sapere niente di preciso su di lui:
nemmeno di che nazionalità era. Savoia, certo, ma nato a Parigi e
vissuto lì fino a diciannove anni, il che giustifica la pretesa di
Voltaire. Figlio, però, non solo del principe di Savoia-Carignano,
generale al servizio del Re Sole, ma di Olimpia Mancini, la più
scandalosa delle mazarinettes , la pleiade di nipotine italiane che il
cardinale Mazzarino aveva fatto venire da Roma e introdotto alla corte
di Francia e nel letto del re. Italiano, dunque, il che autorizzò
Jonathan Swift a denunciare in lui «quella crudeltà della quale si
accusano talora gli italiani»; ma un altro avversario politico, il
ministro inglese St. John, lo chiamò invece con disprezzo «un miserabile
generale tedesco». Quanto a lui, si firmava «Eugène de Savoie», dando
ragione a Voltaire, ma anche «Eugenio von Savoy», che è come dire che
anche lui si arrendeva: era tutte queste cose, e altre ancora, e non
aveva voglia di scegliere.
L’altra cosa mai accertata con
sicurezza a proposito del principe Eugenio sono le sue preferenze
sessuali. Nonostante il cattolicesimo controriformista che ufficialmente
regnava in Francia, la società di Versailles aveva abitudini piuttosto
libere. Il fratello del re, Monsieur, praticava la sua omosessualità
sotto gli occhi di tutti, e secondo certi bene informati il principe
Eugenio era uno dei giovanotti che allietavano le sue orge in abiti
femminili; il fatto che la famiglia lo destinasse alla carriera
ecclesiastica, per cui già dall’infanzia portò la tonsura, vestì di nero
e fu noto come «l’abbé de Savoie», non rappresentava evidentemente un
ostacolo.
Eugenio si travestì da donna anche quando, nel 1683,
dopo che il Re Sole aveva rifiutato di dargli un posto nell’esercito,
scappò da Parigi per raggiungere Vienna assediata dai turchi, e cominciò
quella carriera militare al servizio dell’imperatore che lo avrebbe
visto generale a vent’anni e feldmaresciallo a trenta, per poi
diventare, in vecchiaia, l’uomo più influente dell’Impero asburgico. E
tutto senza lasciarci una lettera privata, un diario, il nome di
un’amante, un indizio qualunque della sua intimità: un capolavoro, che
possiamo solo invidiare in quest’epoca che ha dovuto inventare il
garante della privacy.