lunedì 10 ottobre 2016

Corriere 10.10.16
I giorni più felici di Sant’Agostino
Un’armonia generata dalla fede
di Pietro Citati

Una luce tranquilla avvolge i Dialoghi (tra i quali i Soliloqui , perfettamente curati da Manlio Simonetti per la Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori), che Agostino scrisse subito dopo la conversione, a Cassiciacum, in Brianza, nel settembre 386. Allora egli visse il suo periodo di otium cristiano, assieme alla madre, al figlio e ad alcuni allievi: come tanti scrittori della Roma classica, liberi dalle cure di una professione pubblica, avevano trascorso le estati e gli autunni in campagna, dedicandosi alla lettura e alla meditazione.
A metà della notte Agostino si svegliava; e nel dormitorio rifletteva in silenzio su tutto ciò che l’ispirazione o il caso gli portavano nella mente. Quando si svegliava qualche amico, discorreva con lui, mentre si avvicinava l’alba. Mangiavano poco: tutti continuavano le discussioni nei prati vicino alla casa, appena si dissipava la nebbia del mattino. Agostino non si era mai sentito così teneramente felice, sereno e disteso, come allora, con l’anima e il corpo convalescenti dalle ferite della conversione: «Ormai, scriveva, rivolto al grande Interlocutore, sei Tu solo che io amo, Tu solo che io seguo, Tu solo che io cerco, Tu solo che sono pronto a servire».
Amava la filosofia neoplatonica, e i suoi «densi profumi», Plotino e Porfirio, come non l’avrebbe più amata, e la tingeva di un esile colorito cristiano. Non aveva ancora scoperto il suo vero Dio: il Dio delle Confessioni . Senza saperlo, adorava ancora quello dei filosofi: il dio del Bene e del Bello, sorgente e principio della luce intelligibile e di tutto ciò che brilla di questa luce: «La sola sostanza veramente eterna, in cui non vi è nessun disaccordo, nessuna confusione, nessun cambiamento, nessuna mancanza, nessuna morte; ma vi è sovrana coincidenza, sovrana evidenza, sovrana costanza, sovrana pienezza, sovrana vita». Quel dio era nascosto, ed egli voleva conoscerlo. «Non conosco — gli diceva — la via per arrivare a Te. Dimmela Tu, mostramela. Dammi la fede, dammi la virtù, dammi la scienza».
La strada che portava a Lui era lunga. C’erano innumerevoli passi da compiere: ma egli era certo che tutti coloro che cercano Dio lo trovano: «Tu sei il sommo Bene, nessuno che ti ha cercato rettamente non ti ha trovato». Ciò che lo consolava, era che proprio Dio, la meta, era anche la guida, il compagno di strada: lo sentiva accanto a sé, mentre gli facilitava il cammino. Con il suo aiuto, nessun passaggio era difficile, o tanto meno impossibile. «Fa che io che Ti cerco nient’altro possa trovare se non Te».
Agostino non si illudeva sulla difficoltà della strada. Quando aveva cominciato a cercare era malato: l’inizio dei Soliloqui si sofferma, con parole intense, su questa malattia indefinita. Ma era giunto, scrivendo parola dopo parola. Tutto, in realtà, lo aveva favorito. Se guardava l’universo ne scorgeva l’ordine meraviglioso: gli occhi ammiravano le forme belle e varie, i colori vivi e freschi, la luce che inondava le cose e le accarezzava. Non c’erano mai dissonanze: perché il peggio si armonizzava col meglio, e così la sventura con la felicità, il peccato con la salvezza. Tutto ciò che possedeva il privilegio dell’Essere era buono. Con un sussulto stupendo di ottimismo, Agostino immaginava che tutti i suoi sogni, le verità che abitavano la sua mente illuminata da Dio, esistessero necessariamente in qualche luogo di questo o di un altro mondo. Egli benediceva le cose. Anche i corpi (che, a volte, egli condannava) possedevano bellezza e armonia, ed erano dunque opera di chi è il principio di ogni bellezza. Anche ciò che moriva non turbava l’equilibrio dell’universo, simile ad un discorso ben costruito.
Il problema del male, che aveva inquietato tutti gli uomini e i filosofi, non inquietava Agostino. C’erano — egli pensava, due possibilità. O il male non era una sostanza: esso nasceva dal libero arbitrio di un uomo: Nequitia , «malvagità» discendeva da ne quidquam , «nulla»; il male era dunque una pura assenza, una privazione, una mancanza, come le tenebre non sono che una assenza di luce e il silenzio una assenza di suoni. Oppure qualsiasi ombra negativa egli scorgesse nell’universo, o nella sua vita, rientrava in una misteriosa ma forse visibile armonia universale. Anche il brutto apparteneva alla bellezza: come l’insignificante e l’irreale erano pieni di significato e di realtà.
Agostino scrive che i Soliloqui sono un libro incompleto, che avrebbe completato e concluso con un altro libro. Ma Agostino non è mai incompleto. L’elegantissima dialettica e l’elegantissima retorica — i due aspetti del suo spirito — si fondono mirabilmente, e ci incantano in ogni riga .