Repubblica 10.10.16
L’ingorgo delle grandi opere
Progetti al buio ministeri incapaci e l’alta velocità batte la prevenzione
Nei giorni scorsi il premier Renzi ha rilanciato il Ponte sullo Stretto, assicurando l’appoggio del governo al progetto
Una torta da oltre 90 miliardi ma si sceglie senza serie valutazioni e ci sono conflitti di competenza
Per la difesa del suolo 800 milioni, 25 volte meno del necessario
di Marco Ruffolo
ROMA.
Quando due anni, sette mesi e 18 giorni fa si insediò il governo Renzi,
la macchina delle opere pubbliche era ridotta più o meno così: progetti
portati avanti senza uno straccio di valutazione, zero risorse o quasi
per interventi salva-vita come la difesa del suolo e la messa in
sicurezza degli edifici, fondi europei non spesi o sprecati in una
miriade di micro-interventi affidati alla cieca a Comuni e Regioni,
dieci anni di attesa e più per il completamento di infrastrutture di
oltre 50 milioni di euro. Cosa si è fatto da allora per aggiustare
quello che è considerato uno dei principali motori della crescita? Un
fatto è certo: gli investimenti pubblici si stanno lentamente
riprendendo dopo il crollo verticale degli anni scorsi e ci sono più
soldi da spendere. Ma le grandi opere di collegamento come l’alta
velocità ferroviaria sono ancora in gran parte prive di un serio esame
preventivo e ciononostante hanno a disposizione molte più risorse delle
opere salva-vita, quelle che dovrebbero prevenire alluvioni, frane,
crolli di edifici e incidenti ferroviari. Le quali hanno sì più soldi di
prima ma non quanto sarebbe necessario. E intanto l’Ufficio
parlamentare di bilancio denuncia la assoluta incapacità dei ministeri
nel valutare i progetti e l’assenza di una seria programmazione
nazionale.
Mai forse come in questo momento il ruolo degli
investimenti, e in particolare delle opere pubbliche, è stato così
cruciale per le chance di crescita del nostro Paese. Dal loro successo o
meno dipende se l’Italia resterà impantanata nella malinconica teoria
degli zero virgola o riuscirà a prendere il largo superando la soglia
maledetta dell’1%, sempre più simile alla porta che nel film di Bunuel
“L’angelo sterminatore” gli invitati non riescono a oltrepassare alla
fine della serata. Situazione surreale come surreale è la condizione in
cui sono stati tenuti in tutti questi decenni gli investimenti pubblici.
Eppure non c’è politico che non li abbia evocati come arma risolutiva
contro la crisi. Sono diventati uno stucchevole refrain, un mantra tanto
insistito quanto inascoltato. Il governo Renzi cerca ora di rimettere
in moto le infrastrutture, puntando su 90 miliardi di opere prioritarie.
Vediamo con quali risultati.
LE RISORSE: ADESSO CI SONO
L’Italia
ha vinto due battaglie con Bruxelles ottenendo da una parte la fine del
patto di stabilità interno che impediva a molti Comuni di investire e
dall’altra la possibilità di finanziare in deficit parte degli
investimenti già decisi: avevamo chiesto per il 2016 poco più di 5
miliardi, la Ue ce ne ha riconosciuti 4,3. Non male. In più (come spiega
l’Ance in un suo recentissimo studio) la legge di stabilità di
quest’anno ha previsto un aumento di risorse per le infrastrutture del
10%, che le porta a 13 miliardi e mezzo. Ovviamente solo una piccola
parte potrà essere spesa quest’anno. Ma l’inversione di tendenza c’è,
soprattutto se pensiamo che tra il 2008 e il 2015 i soldi per le opere
pubbliche sono crollati del 42,6%. Questa volta dunque i soldi ci sono.
Come si stanno spendendo e con quali priorità?
LE PRIORITÀ: COSA SCEGLIERE
Qualcuno
ricorderà la lunghissima lista di infrastrutture che i governi
precedenti avevano agganciato al carro della “legge obiettivo”, una
procedura straordinaria nella quale finì letteralmente di tutto, a
cominciare dalle grandi opere, quasi tutte rimaste al palo. Un anno fa
il governo Renzi sfoltì quella assurda lista annunciando anche che
avrebbe spostato l’asse degli interventi sui piccoli cantieri, più
facilmente realizzabili e in molti casi anche più utili dei
maxi-progetti. «Focalizzarsi sulle grandi opere – spiegò il ministro
Delrio - ci ha portato in 14 anni di legge-obiettivo a stanziare 285
miliardi per vederne impiegati soltanto 23, appena l’8%». «Opere utili,
snelle e condivise», è lo slogan del Def 2016. Ma le grandi opere, pur
dimezzate nel novero di quelle prioritarie, sono rimaste, soprattutto
quelle ferroviarie di valico, prolungamento dei corridoi europei, e
quelle per l’alta velocità al Sud. A queste, almeno nelle intenzioni di
Renzi, si aggiungerà anche la madre di tutte le infrastrutture: il Ponte
sullo Stretto.
Nello stesso tempo, però, viene data per la prima
volta certezza di risorse pluriennali al riassetto idrogeologico,
all’edilizia scolastica e alla manutenzione stradale e ferroviaria. Così
il governo sembra voler dare una risposta a due grandi obiettivi
contemporaneamente: da una parte collegare l’Italia, dall’altra metterla
in sicurezza. Ma in che proporzione le risorse sono destinate all’uno e
all’altro? Difficile inoltrarsi nel labirinto dei finanziamenti
pubblici. Prendiamo le opere che il governo potrebbe ora accelerare:
quei 5,1 miliardi poi leggermente ridimensionati da Bruxelles. La parte
del leone (circa la metà) la fanno trasporti e banda ultralarga per
velocizzare Internet, mentre solo il 5% va alla protezione ambientale.
Se poi restringiamo il campo ai progetti effettivamente in corso (2,6
miliardi) quasi il 40% va alle reti transeuropee con dentro i famosi
corridoi ferroviari.
Questo non significa che non vi siano fondi
per i cantieri minori e spesso più urgenti. L’Ance calcola in 900
milioni la disponibilità 2016 per l’edilizia scolastica e in 800 quella
contro il rischio idrogeologico. C’è chi fa notare però che bisognerebbe
concentrarsi quasi esclusivamente sul quel tipo di infrastrutture, che
potremmo chiamare “opere salva- vita”, perché rispetto alle “opere di
collegamento” presentano carenze infinitamente maggiori, oltre a
garantire una crescita economica più diffusa e certa.
I FABBISOGNI DEL SALVA-VITA
Per
avere un’idea di fabbisogno delle infrastrutture salva-vita, guardiamo
alla difesa del suolo e alla sua lotta impari con le catastrofi. Nei
primi quindici anni del nuovo millennio, abbiamo da una parte duemila
alluvioni che hanno spazzato via 293 vite umane e provocato danni per 3
miliardi e mezzo di euro l’anno. Dall’altro, un impegno dello Stato per
il riassetto idrogeologico che non è andato oltre i 400 milioni annui.
Insomma, i poteri pubblici hanno investito per prevenire catastrofi in
gran parte prevedibili un nono dei costi provocati dalle stesse
catastrofi. Ora Italiasicura, la “struttura di missione” messa in piedi
nel 2014 contro il dissesto idrogeologico, ci dice che il ritmo di spesa
è aumentato a oltre un miliardo l’anno, e che tra fondi europei e
nazionali saranno disponibili nei prossimi 7 anni altrettanti miliardi.
Ma ci dice anche che questo non basta affatto: per dare alla parola
prevenzione un significato appena dignitoso ci vorrebbe almeno il
doppio, da spendere per più di dieci anni consecutivi. Solo così
potremmo sperare di avvicinarci al fabbisogno indicato dalle Regioni:
una ventina di miliardi. Per adesso gli unici progetti che vanno avanti
sono quelli di alcune città metropolitane, a partire da Genova,
devastata dalle ultime alluvioni, e da Milano. E il grosso degli
interventi sarà avviato solo nel 2018. Insomma, i tempi e i
finanziamenti delle opere saranno anche meno lenti di prima ma sono
ancora scanditi dal trascorrere degli anni, mentre torrenti e frane non
aspettano. E se rinunciassimo ad alcune grandi opere per dare più spazio
alle infrastrutture salva-vita? Una domanda alla quale se ne lega
un’altra: quelle grandi opere confermate dal governo sono veramente
utili? Chi le ha scelte e come?
CHI VALUTA E CHI SCEGLIE
Il
governo, oltre a selezionare le nuove grandi opere, ha rivoluzionato le
regole nella valutazione degli investimenti e negli appalti. Obiettivo:
più qualità e trasparenza, tempi più rapidi, scelta delle opere in base a
valutazioni rigorose, le cosiddette analisi costi-benefici. «Già, tutte
buone intenzioni – dice Claudio Virno, esperto in valutazioni degli
investimenti e consulente dell’Ufficio parlamentare di bilancio - ma
questo sembra applicarsi ai progetti futuri, non a quelli in corso per i
quali pare che il governo voglia mantenere le vecchie procedure, che di
rigoroso non hanno nulla». Sotto esame finiscono importanti opere
ferroviarie per l’alta velocità: il terzo valico della Milano- Genova,
il tunnel del Brennero, quello del Frejus della Torino- Lione, la
Napoli-Bari. «Queste ultime due in particolare – continua Virno – non
supererebbero test seri: hanno chiaramente sopravvalutato la domanda, il
traffico futuro». Ma del resto abbiamo avuto un ministro dei Trasporti,
predecessore di Delrio, che rispose così a quelle critiche: «Per le
grandi opere non serve che ci sia traffico, si fanno e poi il traffico
arriverà». «L’aspetto più drammatico – rincalza Marco Ponti, che insegna
economia dei trasporti al Politecnico di Milano - è la irreversibilità
dei progetti: una volta che li approva il Cipe non si torna più
indietro. Prima di far partire un progetto, bisognerebbe fare una gara
internazionale con serie valutazioni comparative tra soluzioni diverse.
Oggi invece le analisi non vengono fatte o vengono demandate ai diretti
interessati. I trucchi per far passare i progetti politicamente più
gettonati sono molteplici. Pensi che c’è una leggina per cui quando
un’opera è interamente finanziata dallo Stato (e le opere ferroviarie lo
sono tutte) non è richiesta nessuna analisi economica o finanziaria.
Ossia, se l’opera è pubblica i soldi si possono anche buttare dalla
finestra. La conclusione è che ci sono una trentina di miliardi di
progetti che rischiano di non essere valutati a dovere». Ma il ministero
delle Infrastrutture la vede in modo diametralmente opposto: «Questa
era la situazione fino ad oggi, ma ora con la nostra struttura di
missione, fatta di esperti di livello internazionale, abbiamo rivisto
moltissimi progetti facendo risparmiare miliardi di euro». Il problema
però è che su 90 miliardi di opere prioritarie, 50 sono vincolati
giuridicamente e 75 già approvati dal Cipe.
Strutture di missioni,
valutatori esterni: ecco, per far funzionare una amministrazione
pubblica, sembra che ci si debba per forza rivolgere a qualcuno al di
fuori dei ministeri. Ma allora che ci stanno a fare le centinaia di
funzionari e dirigenti? Se lo chiede l’Ufficio parlamentare di bilancio
in suo recente studio. «I ministeri non dispongono di personale interno
con le competenze professionali specialistiche necessarie, e lo stesso
si può dire per i Nuclei di valutazione. Non c’è scambio di informazioni
all’interno, non sono mai state applicate sanzioni per chi non fa il
suo dovere». In queste condizioni non c’è da stupirsi se i progetti sono
fatti male e si impantanano in un crescendo di tempi e di costi. Per
non parlare del diluvio di sigle che ruotano intorno alla scelta delle
opere: in ogni ministero ci sono i Nuvv (nuclei di valutazione degli
investimenti), ai quali si affiancano a Palazzo Chigi il Nuvap, l’Uftp e
il Nuvec che fa capo all’Agenzia per la coesione territoriale. A tutte
queste sigle si chiedeva di scrivere almeno una cosa: il documento
pluriennale di pianificazione, con l’analisi di tutti fabbisogni
infrastrutturali. Ma questo documento è ancora fantasma, come sono
fantasma le Linee guida per la valutazione. Niente paura, nel frattempo
sono stati preparati i Vademecum che faranno da guida alle Linee guida.
Un percorso kafkiano che l’Ufficio bilancio chiama eufemisticamente
«quadro istituzionale molto frammentato». Come frammentato è il quadro
delle competenze, dove Regioni e Comuni hanno il potere di rallentare
ogni opera e di aprire un contenzioso dopo l’altro portando l’Italia ai
vertici mondiali dei ritardi. Di fronte a questo affresco di
deresponsabilizzazioni, si capisce come in tutti questi anni siano
finiti i soldi dei progetti europei: da una parte in maxi-opere che si
sono presto impantanate con costi e tempi fuori controllo, dall’altra in
migliaia di micro-progetti locali che non rientrano in nessuna
strategia nazionale.