lunedì 10 ottobre 2016

Corriere 10.10.16
Un ponte che mai si farà
di Angelo Panebianco

Il governo Renzi ha scelto di investire risorse nella costruzione del ponte sullo Stretto di Messina. Se ne parla da un secolo e nessuno è mai riuscito nell’impresa. La vicenda del ponte è ricca di insegnamenti, aiuta a capire certe costanti, certi schemi di comportamento che, in Italia, si ripetono sempre uguali a se stessi, pur nel variare delle situazioni e dei protagonisti. Ci sono due domande che meritano di essere formulate.
La prima: perché nonostante l’enfasi posta sulla sua necessità, e le risorse periodicamente investite da questo o quel governo, il ponte non è mai stato costruito e, con ogni probabilità, non lo sarà mai?  La seconda: perché il tema del ponte entra improvvisamente nell’agenda pubblica nazionale, e poi scompare per anni o anche decenni, riappare e scompare di nuovo?
Rispondere (o tentare di rispondere) alla prima domanda può aiutarci a capire alcuni aspetti del complicatissimo e travagliatissimo rapporto fra la Sicilia e il resto del Paese. La fondamentale ragione per cui il ponte non è mai stato costruito è che i siciliani sono sempre stati divisi sull’argomento. Ci sono nell’isola, naturalmente, i favorevoli al ponte ma sono sempre stati numerosi anche i contrari.  Non si capisce la Brexit se non si mette in conto il rapporto storicamente complicato fra le isole britanniche e l’Europa continentale.
A llo stesso modo non si capisce l’opposizione di una parte non piccola dei siciliani per il ponte se non si considera che esso — in definitiva, una passerella che collegherebbe stabilmente, permanentemente, la Sicilia alla Calabria — sarebbe, psicologicamente, un vulnus per l’insularità. Ciò, nonostante il fatto che quasi sempre, se non sempre, quando si abbattono costi e tempi di trasporto di persone e merci (come fanno appunto i ponti), ciò ha, nel lungo periodo, effetti economici benefici per i territori interessati.
Naturalmente, oltre alle divisioni dei siciliani, ha sempre giocato anche la scarsa disponibilità del resto del Paese a dirottare verso tale impresa le ingenti risorse necessarie. Le tradizionali obiezioni al ponte (rischi sismici, rischi di impatto ambientale) non sono mai state davvero dirimenti. Anche perché esistono i mezzi tecnici per ridurre quei rischi. Le ragioni autentiche dell’opposizione sono altre.
La seconda domanda a cui occorre rispondere è: da cosa dipende il movimento pendolare per cui il tema appare e scompare, viene rilanciato da un governo e poi bruscamente accantonato da quello successivo? La questione ha a che fare, prima di tutto, con il grado di centralizzazione del potere di volta in volta prevalente. In Italia alterniamo momenti in cui si afferma (o tenta di affermarsi) una leadership individuale, personale, in cui il potere si concentra, ad altri momenti, in genere molto più lunghi, in cui il potere è diluito, in cui le redini del gioco sono nelle mani di una oligarchia, di una ristretta aggregazione di ottimati. Dal movimento pendolare, dall’oscil-lazione fra il polo della leadership individuale e il polo del potere oligarchico–collegiale dipendono la comparsa e la scomparsa del ponte sullo Stretto dalla discussione pubblica. Quando si afferma una leadership individuale, il progetto riappare, quando quella leadership individuale viene sconfitta e sostituita da una oligarchia, il progetto viene di nuovo accantonato. Lasciando da parte (perché non c’entra niente) l’età fascista, restando al solo periodo democratico, sono stati favorevoli al ponte sullo Stretto, nell’ordine, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi, Matteo Renzi. Lasciando agli stolti di sostenere che fra tali uomini politici non ci sia differenza, notiamo però che un elemento di somiglianza c’è effettivamente: sono tutti casi di leadership personali, individuali, uomini che gestiscono il potere in modo antitetico rispetto a quello che è proprio degli assetti oligarchico-collegiali. Non è un caso che tutti e tre siano andati incontro all’accusa di autoritarismo, all’accusa di volere imporre una tirannia, da parte dei fautori del potere oligarchico, da parte dei nemici delle leadership individuali.
Che cosa muove questi leader, che cosa li spinge a imbarcarsi in una impresa difficilissima, probabilmente disperata, come il tentativo di fare il ponte sullo Stretto? Due cose, forse. Da un lato, la volontà di legare la propria leadership a un progetto di modernizzazione del Paese, Mezzogiorno d’Italia incluso (e il ponte diventa un simbolo di questo progetto). Dall’altro, l’idea che, data la forza degli ostacoli, dato il volume di fuoco che è sempre in grado di scatenare l’artiglieria dei nemici del ponte, riuscire a costruirlo, nonostante tutto e tutti, sarebbe una indiscutibile dimostrazione di potenza.
Lo sappiamo tutti, conta anche un’altra cosa: il ponte sullo Stretto è di destra. Come la mozzarella, si sarebbe detto un tempo. Il non-ponte, invece, è di sinistra. Come il gorgonzola. Oltre all’oscillazione fra leadership personali e leadership oligarchico-collegiali, anche gli alti e bassi dell’eterno conflitto fra le due fazioni contribuiscono a favorire il movimento per cui l’interesse per il ponte appare e scompare. Appare quando è in vantaggio la destra oppure quando, come accade oggi, c’ è un leader di sinistra «impuro» o anomalo, uno che cerca di rimescolare le carte, attirando dalla sua gli italiani della più varia provenienza politica. Scompare invece quando è in vantaggio la sinistra dura e pura ( ma anche un puro potere oligarchico-collegiale come fu quello democristiano). Ma questo movimento non modifica di un millimetro la situazione: il ponte, quasi certamente, non si potrà mai fare. Se venisse costruito potrebbe destabilizzare, quanto meno nel medio-lungo termine, equilibri consolidati, indebolire gerarchie sociali, dinamizzare un mondo che chiede di restare immobile. Quel desidero di immobilità è più forte del ponte nonché di qualunque governo voglia costruirlo. Il futuro, naturalmente, è sempre imprevedibile ma gli scommettitori, se conoscono il loro mestiere, non possono che puntare sulla vittoria di quel desiderio di immobilità.