Il Sole 10.10.16
Rischio-stipendi per 800mila statali
Attesa in settimana la definizione delle regole e delle risorse per finanziare il rinnovo
Contratto statali in cerca di fondi
di Gianni Trovati
Senza correttivi la stretta sui «premi» rischia di ridurre la busta a 800mila persone
In
settimana si saprà quanto il governo intende stanziare per il rinnovo
dei contratti pubblici. Il vero nodo per il settore è dato però
dall’applicazione della riforma Brunetta, che impone di cancellare i
«premi» di produttività per un quarto del personale. A rischio, senza
correttivi, gli stipendi di 800mila dipendenti.
L’esclusione dai «premi» di un quarto del personale può portare tagli con il nuovo contratto
A
15 mesi dalla sentenza della Corte costituzionale che ha imposto di
riavviare la macchina dei contratti pubblici, questa è la settimana
buona per conoscere la cifra che il governo ha intenzione di mettere sul
tavolo, dopo lo stanziamento “simbolico” assegnato dall’ultima legge di
Stabilità. Visto il «sentiero stretto» (copyright Pier Carlo Padoan) su
cui si sta inerpicando la manovra, schiacciata tra una crescita
incolore e via libera europei tutti da conquistare, non sarà una cifra
da sogno: i calcoli della vigilia parlano di 500 milioni, che si
aggiungono ai 300 accantonati dallo scorso anno e che sicuramente
riaccenderanno la polemica fra governo e sindacati. Ma anche se il
dibattito pubblico attende la cifra come la risposta di un oracolo, il
primo problema non è lì. A «normativa vigente», come dicono gli addetti
ai lavori, il rinnovo dei contratti pubblici sembra una sciarada
impossibile da risolvere. L’ostacolo principale si chiama “meritocrazia”
o, per dire meglio, è la sua declinazione ultra-rigida scritta sette
anni fa dalla riforma Brunetta, rimasta finora nei cassetti proprio
perché la crisi finanziaria ha congelato il pubblico impiego.
La
regola, che all’epoca ha prodotto discussioni infinite prima di essere
dimenticata e che torna ora al centro della scena, è articolata in due
mosse. La prima chiede di destinare al salario di produttività, cioè ai
premi individuali, la «quota prevalente» (cioè più del 50%, a meno di
interpretazioni capziose destinate a cadere di fronte a qualsiasi Corte
dei conti) del salario accessorio, vale a dire delle somme che gli
integrativi aggiungono al contratto nazionale. La seconda impone di
dividere i dipendenti in tre fasce e di concentrare sul 25% del
personale la metà dei premi, distribuire l’altra metà dei fondi fra il
50% degli organici e lasciare l’ultimo quarto dei dipendenti a secco di
premi. La regola, spiegava allora la riforma, entra in campo al primo
rinnovo contrattuale successivo alla sua approvazione, cioè ora, e a chi
mastica qualcosa di pubblico impiego la conseguenza appare evidente:
per 700-800 mila persone, cioè per quel 25% di lavoratori pubblici che
dovrebbero rimanere senza premi, il rinnovo del contratto rischia di
costare caro, perché l’azzeramento del bonus vale molto di più di
qualsiasi aumento nazionale.
Non è un caso, quindi, se gli
incontri informali con i sindacati, che nelle settimane scorse hanno
riempito le agende dell’Aran (l’agenzia governativa che rappresenta lo
Stato come datore di lavoro), si sono concentrati sulle possibilità di
“sminare” la riforma Brunetta più che sulle cifre da mettere a bilancio.
Politicamente,
la questione è delicata. Lo stesso governo ha intenzione di rimettere
mano alle griglie rigide della Brunetta e di tornare a dare un peso alle
“relazioni industriali” anche sull’onda del rilancio della
concertazione sperimentato con le pensioni. L’obiettivo è di riportare
una serie di materie dalla legge ai contratti, proprio per rilanciare
gli strumenti integrativi come accade nel privato, ma il rebus resta
complicato.
La sede naturale per riscrivere le regole è il testo
unico del pubblico impiego, che però arriverà al traguardo non prima di
giugno e quindi fuori tempo massimo per far partire almeno la
discussione sui contratti, e quindi si studia la possibilità tecnica di
anticiparne qualche contenuto nella legge di bilancio. Ma nel merito la
questione è ancora più complicata. Cancellare del tutto i princìpi che
hanno ispirato le tre fasce di Brunetta non si può, perché
significherebbe ridare legittimità ai premi “a pioggia” che fanno a
pugni con gli obiettivi ufficiali del governo messi nero su bianco dalla
delega Madia. Nelle bozze preparate finora in vista del nuovo testo
unico del pubblico impiego è confermata solo una parte del meccanismo
scritto nel 2009, quella che riserva il 50% dei premi al 25% del
personale considerato più brillante, si prevede che i contratti possano
allargare di un altro 10% la platea dei “migliori”, ma non si dice nulla
sull’esigenza di escludere dai bonus una fascia di personale. La stessa
nota di aggiornamento al Def che sarà votata mercoledì da Camera e
Senato spiega che il rinnovo dei contratti pubblici avrà «l’obiettivo di
valorizzare il merito e favorire l’innalzamento della produttività»:
tutto sta a trovare come raggiungerlo.
Sui numeri, invece, un
piccolo aiuto al governo arriva dall’inflazione fredda, che trascina al
ribasso anche l’indice (quello «armonizzato» dei prezzi al consumo) su
cui si calcolano i costi dei rinnovi. L’inflazione vicina allo zero,
però, frena anche la dinamica del Pil e le possibilità di limare il
debito pubblico, rendendo ancora più complicato il confronto con con la
Ue sull’assetto definitivo dei conti italiani. Anche per i dipendenti
pubblici, quindi, un pezzo della partita si gioca a Bruxelles.