lunedì 10 ottobre 2016

La Stampa 10.10.16
Manovra, i conti sulle privatizzazioni non tornano: rischio buco di 2-3 miliardi
di Paolo Baroni

Adesso tutte le attenzioni sono concentrate su due numeri, il livello di deficit che verrà fissato per il 2017 e di riflesso la crescita del Pil, che il governo ha indicato all’1% tra mille polemiche e obiezioni. Nessuno parla invece del debito, il nostro vero punto debole, soprattutto se si intende continuare a trattare con Bruxelles ulteriori margini di flessibilità sul disavanzo. E non a caso il Tesoro con l’ultima nota di variazione del Def, mentre sul deficit punta strappare un livello praticamente uguale a quello di quest’anno, sul debito ha confermato il percorso di discesa anche se un poco addolcito. Si passa infatti dal 132,8% di quest’anno (in aumento dal 132,3% del 2015) al 132,5% del 2017 per arrivare poi nel 2019 sotto quota 130. Basterà a convincere Bruxelles a concederci un aumento del deficit? La partita è in corso ed una risposta l’avremo solo nelle prossime settimane.
Quello che è certo è che dalle privatizzazioni molto difficilmente arriverà l’aiuto che ci si aspetta. Già l’anno scorso il governo ha clamorosamente sbagliato previsioni. Aveva messo in conto di incassare lo 0,5% del Pil, all’incirca 8 miliardi, ed invece si è fermato allo 0,1% tra i soldi incassati con l’Enav (834 milioni) ed i proventi delle vendita di alcuni immobili.
Nonostante ciò, o forse proprio per questo, per il 2017 il Tesoro ha tenuto fermo l’obiettivo di mezzo punto di Pil di incassi. Un target che il fondatore di «Privatisation Barometer», Bernardo Bortolotti, ha definito «fuori portata» in una dichiarazione all’agenzia Reuters. «Avrei preferito che postassero cifre più conservative. Fra l’altro con tassi di interesse sul debito inferiori al rapporto prezzo delle azioni/dividendi delle società in vendita non è detto che convenga privatizzare, perché il venditore rischia effetti negativi sul patrimonio netto».
Quota 8 miliardi, insomma, rappresenta quasi un miraggio. Anche nel 2017. I conti sono presto fatti: il 29,7% ancora detenuto nel capitale delle Poste vale 2,5 miliardi, mentre il 13,75% di Stm (microprocessori) potrebbe passare alla solita Cdp per 900 milioni. Infine ci sono le Ferrovie. In questo caso dopo un tira e molla durato quasi due anni, e costato la poltrona ai vecchi vertici, le Fs hanno deciso di portare in Borsa solamente la Divisione lunga percorrenza (Frecce e Intercity). Altra cosa rispetto alla quotazione dell’intera holding di cui s’era parlato all’inizio. Tant’è che dei 3-4 miliardi ipotizzati a suo tempo ci si dovrà accontentare di incassare molto meno. «Al massimo si arriverà ad un miliardo» spiega una fonte vicina al dossier. Risorse che tra l’altro resterebbero all’interno delle Fs come è già accaduto per Grandi stazioni, a meno che il Tesoro non pretenda un dividendo straordinario. I vertici Fs hanno spiegato che su questo progetto «c’è il pieno consenso dell’azionista». Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan a sua volta ha confermato l’ok, anche perché una serie di vincoli (e di veti) non consentivano di fare altrimenti. In cuor suo però non deve essere stato molto contento. Perché in questo modo nel 2017 mancheranno altri 2-3 miliardi di incassi. Con buona pace del taglio del debito.