il
curatore narciso che espone se stesso
Fenomeni
| I nuovi protagonisti dell’arte hanno cambiato il sistema delle
mostre. Dominate ormai più dal loro egocentrismo che dalle opere.
Risultato: esposizioni vuote e rimasticate. Tutto in nome di una
presunta profondità
di
Lucia Tozzi
“Curazionismo”
è un lemma da inserire nella lista delle parole orrende del nostro
tempo. L’idea di trovarsi, o di avere attraversato, l’epoca del
curazionismo fa ribrezzo. Tuttavia, comunque lo si voglia chiamare, è
verissimo che il fenomeno ha assunto proporzioni talmente imponenti
da riempire scaffali di biblioteche, dipartimenti universitari e, in
un’accezione più ampia di quella espositiva, ha plasmato in
modo irreversibile le nostre vite individuali e collettive, o meglio
i nostri lifestyle. Questa, almeno, è la versione di uno degli
ultimi saggi stampati e tradotti sull’argomento, Curationism. How
Curating Took Over the Art World and Everything Else (tradotto in
italiano col titolo Curatori d’assalto), del critico canadese David
Balzer. «A che cosa si deve l’ascesa del curatore? In che
modoquesta attività è filtrata nella cultura di massa, o, più
precisamente, nel consumismo di massa? […] La mia tesi è che,
all’incirca dalla metà degli anni Novanta, ci troviamo a vivere in
un tempo in cui le istituzioni e le attività commerciali affidano a
terzi la gestione di un’immagine espressiva che sia garanzia di
valore, nel tentativo di corteggiare varie categorie di pubblico e
consumatori per stabilire solide fidelizzazioni. In quanto pubblico e
consumatori, tutti noi siamo chiamati in causa per coltivare e
organizzare al meglio le nostre identità seguendo le indicazioni
ricevute». Balzer mette sullo stesso piano l’emersione autoriale
dell’a ttività di curatela nel mondo dell’arte, e poi
dell’editoria, della moda, delle attività commerciali, con l’ossessione per le playlist, i profili social, con il culto della
customizzazione e della differenziazione che si è affermato nell’era
cognitiva. Il sottofondo dichiarato, ma non esplicitato in ogni
pagina, è la Grammatica della moltitudine di Paolo Virno, diventato
paradossalmente una bibbia per moltissimi curatori: nell’interpretazione di Balzer, il processo di individuazione compiuto dalla
moltitudine è messo continuamente a valore per mezzo dei curatori. E
d’altra parte, «avallando collettivamente questo processo di
fondazione di una certa idea di valore, tutti noi ci accolliamo,
spesso involontariamente, nuove responsabilità personali e
professionali». Nonostante la premessa, il libro non è affatto
configurato come un saggio teorico, ma mantiene un registro
fortemente narrativo, quasi mondano. A tratti assomiglia a una di
quelle analisi sullo star system – del mondo letterario,
architettonico, artistico – piene di notizie sui tic e le leggende
di personaggi universalmente noti. Leggiamo di Obrist che siaumenta
lo stipendio alla Serpentine come un parlamentare italiano; delle
camicie nere di Beatrix Ruf; delle critiche feroci («Gli unici
atteggiamenti dittatoriali a cui questa biennale è andata incontro
sono quelli dei curatori», scrisse Ralph Rugoff a proposito della
Biennale di Bonami La dittatura dello spettatore, che coinvolgeva
Orozco, Tiravanija, Gioni e Obrist). La presa di distanza di Balzer
non è motivata solo da ragioni stilistiche di buona scrittura e
leggibilità, ma anche da una consapevole diffidenza verso l’uso
sguaiato e superficiale della Theory – quell’insieme di saperi
riconducibile al poststrutturalismo europeo. E in effetti, rispetto
alla stagione seminale delle mostre di Restany, di Celant o di
Szeeman, dominate dalla personalità egocentrica dei curatori ma in
cui le opere d’arte – materiali o immateriali che fossero –
restavano al centro dell’attenzione, oggi all’area dei cultural
studies – messo in atto dalla genia dei curatori. In seguito alla
iperprofessionalizzazione dell’attività curatoriale e della
proliferazione di corsi universitari e master e residenze sul tema,
si è imposta una contaminazione ottusa tra accademia e sistema delle
arti, che produce mostre sempre più mainstream descritte attraverso
bricolage di concetti base postopera isti o postcolonial (una
mitragliata di post) rimasticati in un linguaggio al tempo stesso
oscuro e iconico. E in effetti, rispetto alla stagione seminale delle
mostre di Restany, di Celant o di Szeeman, dominate dalla personalità
egocentrica dei curatori ma in cui le opere d’arte – materiali o
immateriali che fossero – restavano al centro dell’attenzione,
oggi capita più spesso di trovarsi di fronte a una folla di artisti
e opere ammassati più per dimostrare la presunta profondità della
ricerca del curatore che per qualsiasi motivo inerente alla loro
essenza. L’ultima biennale di Okwui Enwezor, compendio di marxismo
postcolonial, e la contemporanea mostra Trussardi La Grande Madre al
palazzo Reale di Milano di Massimiliano Gioni, che sembrava uscita da
un manuale di Gender Studies degli anni ’90, sono prodotti
esemplari di questa reazionaria tendenza. Reazionaria non solo perché
normalizza il conflitto, omologa la diversità delle posizioni,
sussume le energie più vive del pensiero critico, mettendole al
servizio della comunicazione di un brand o di istituzioni assai poco
rivoluzionarie. Questa ambiguità è sempre stata presente nella
storia della produzione artistica, e molti artisti hanno potuto
realizzare progetti straordinari grazie a committenti reprensibili.
La componente più reazionaria del sistema curatoriale, soprattutto
quello indipendente, è l’a n n u l l a m e nto della critica, e in
certa misura anche della produzione di contenuto, di pensiero, perché
curare equivale a selezionare, cioè a un’azione sull’asse
inclusione/esclusione, quanto mai esposta a criteri idiosincratici e
generalmente svincolata dalla necessità di argomentare. Con
l’estensione del paradigma curatoriale ad altri ambiti, per esempio
nel campo editoriale o nell’accademia, lo spazio della critica si è
ridotto fino all’inconsistenza, in nome del principio autoevidente
della selezione: si parla solo delle cose interessanti e buone,
quelle che non lo sono non vanno criticate, attaccate, ma
semplicemente scartate, rimosse, condannate al silenzio. È una
posizione comoda per tutti, che rafforza un sistema di relazioni
completamente scollegato da valutazioni di ordine politico, etico, di
affinità o incompatibilità intellettuale. La competenza più
importante per un curatore è la capacità relazionale, la bravura
nel tessere reti – che di orizzontale, per inciso, non hanno nulla
– meglio se trasversali, plurali, terziste. Portatore di un fare
tutt’altro che postideologico, anzi intrinsecamente neoliberale, il
curatore è diventato così la figura chiave della fase declinante
dell’industria culturale: ha sostituito la più contigua, quella
dell’editor (ci sono redattori che oggi pretendono di essere
definiti curatori nei colophon delle riviste), cancellando
le altre competenze necessarie alla qualità dei testi. È penetrato
nelle scuole e nelle accademie, dove oramai sembra che la cosa più
importante sia attirare nomi prestigiosi piuttosto che organizzare la
qualità dell’insegnamento. Imbastisce concorsi architettonici, ed
è diventato persino un punto di riferimento fondamentale quando si
pensa a un candidato sindaco, o a un assessore alla cultura, o
all’urbanistica, come è successo nel caso emblematico di Edi Rama
a Tirana: come se il ruolo principale di un politico fosse quello di
organizzare eventi mediatici per «cambiare la percezione degli
abitanti» riguardo alla propria città. Per le generazioni che si
affacciano al mondo del lavoro la curatela è quasi uno status
necessario alla costruzione di una qualsiasi altra prospettiva
lavorativa: i giornalisti free-lance hanno bisogno di curare per
mettere insieme qualche soldo, ma anche per intercettare possibilità
di collaborazione a progetti, riviste, enti. I giovagiovani artisti
non fanno che aprire i cosiddetti artist-run spaces, o spazi
indipendenti, per consolidare attraverso una rete di scambi e
comunicazione la propria precaria identità e tentare di entrare in
un sistema economico. Quella che un tempo era la lineare e odiosa
gavetta universitaria al seguito del barone viene elusa a opera
dei più intraprendenti grazie alla cura di infiniti incontri e
workshop, che debitamente registrati forniscono anche materiale, per
lo più inutile ma di un certo prestigio, per le pubblicazioni. Non
si può non riconoscere una grande vitalità tattica a queste
operazioni
che tentano di aggirare l’irrigidimento delle istituzioni
culturali, di erodere i meccanismi che ne ostacolano l’accesso. Il
problema è che a farne le spese è la sostanza stessa della cultura,
lo spirito critico, soffocato dalla microfisica dei circuiti di
scambio attivati dalla curatela. In una società di curatori tutti si
intervistano a vicenda, senza contraddirsi perché non conviene. La
mistificazione, la finta ricerca, la denuncia astratta, sono la
norma, perché nessuno può compromettersi descrivendo quel che
realmente ha davanti agli occhi, pena l’esclusione. S t o r i c
amente pochi hanno il coraggio di riconoscere la nudità del re, ma
in questo sistema anche il ciambellano di corte è al sicuro.
L’antesignano Harald Szeeman (Berna 1933-Tegna 2005) è stato il
geniale ideatore di Live in Your Head: When Attitudes Become Form
(1969), la mostra delle mostre. Cominciò occupandosi di teatro poi,
nella natale Berna, ingaggiato dalla Kunsthalle, diede vita a una
serie di mostre che sconvolsero convenzioni e linguaggi, ma
soprattutto posero la figura del curatore al centro della scena. Nei
decenni successivi ha curato anche una Documenta e ben due edizioni
consecutive della Biennale di Venezia (1999 e 2001).
L’invenzione
dell’arte povera
Germano Celant (Genova 1940) ebbe l’intelligenza
e la fortuna di inventarsi l’Arte Povera nel 1967, riunendo una
serie di artisti che non erano propriamente un gruppo e dedicandogli
un manifesto guerrigliero che, anche se forzato nei toni, ottenne un
successo internazionale di cui ancora oggi si parla. Tutt’altro che
sprovveduto, Celant lo fece fruttare piazzandosi al Guggenheim e
infine firmando il patto di ferro con Prada.
Dissacratore
Jens
Hoffmann (San José, 1974). Insieme a Maurizio Cattelan organizzò
nel 1999 la “6th Caribbean Biennale”, una gigantesca presa in
giro del fenomeno dilagante delle Biennali internazionali: artisti e
giornalisti furono invitati a farsi una vacanza all’Isola di Saint
Kitts. Niente opere. Da allora Jens Hoffmann ha continuato a
dissacrare e a esplorare i miti e la storia della curatela:
fondamentale When Attitudes Became Form Become Attitudes, del 2012 Il
modello assoluto
Hans Ulrich Obrist (Zurigo, 1968) è noto anche con
l’acronimo Huo. Forse non è il più amato, ma certamente è il
modello assoluto del curatore contemporaneo. Noto per la sua totale
dedizione al lavoro –che lui stesso alimenta raccontando della
propria eterna lotta contro il sonno –per i vestiti di Agnès b. e
per le migliaia di interviste ad artisti, scienziati, architetti,
filosofi, Huo è direttore artistico alla Serpentine Gallery di
Londra. Ha canonizzato un format performativo di interviste seriali,
la Marathon.
L’enfasi e il prestigio
Maurizio Cattelan (Padova,
1960) ha interamente allacciato la sua vita artistica ai curatori e
alla curatela, enfatizzando ma anche clamorosamente sorpassando il
loro prestigio. Dal sodalizio con Jens Hoffmann nacque la Biennale
dei Caraibi, mentre insieme a Massimiliano Gioni, suo alter ego
persino nelle interviste, ha curato la Quarta Biennale di Berlino del
2004, Of Mice and Men. Nel 2014 cura a Torino la mostra Shit and Die,
e a Milano apre Le Dictateur, uno spazio indipendente, con Federico
Pepe.
IL
LIBRO il potere che critica il potere
Il
libro si apre e si chiude con Carolyn Christov-Bakargiev, ora
direttore di Rivoli e della Gam di Torino e temutissima icona della
curatela internazionale, già a capo di Documenta13 e della Biennale
di Istanbul. Se l’autore ha preso le mosse da una faticosissima
intervista che le fece alcuni anni fa, è probabilmente perché
Carolyn Christov incarna il più visibile dei paradossi legati alla
sua professione: rifiuta che le vanga assegnato il titolo di
curatore, piuttosto preferisce definirsi “agente” e, dopo avere
accentrato un potere immenso, pretende di enunciare la critica al
potere che esercita senza risparmio. È proprio questo continuo
processo di demistificazione e rimistificazione a costituire, secondo
Balzer, l’essenza del ruolo e le ragioni dell’ascesa della figura
del curatore che, sempre più negli ultimi decenni, è divenuta una
figura “d’assalto”. Un processo analogo e consustanziale allo
sviluppo delle avanguardie e in seguito dell’arte concettuale, che
hanno infatti nutrito e allevato i grandi archetipi dell’era “curazionista”, da Harald Szeeman e Germano Celant fino al
trionfo di Hans Ulrich Obrist.