domenica 16 ottobre 2016

pagina99 15.10.2016
il curatore narciso che espone se stesso
Fenomeni | I nuovi protagonisti dell’arte hanno cambiato il sistema delle mostre. Dominate ormai più dal loro egocentrismo che dalle opere. Risultato: esposizioni vuote e rimasticate. Tutto in nome di una presunta profondità
di Lucia Tozzi

Curazionismo” è un lemma da inserire nella lista delle parole orrende del nostro tempo. L’idea di trovarsi, o di avere attraversato, l’epoca del curazionismo fa ribrezzo. Tuttavia, comunque lo si voglia chiamare, è verissimo che il fenomeno ha assunto proporzioni talmente imponenti da riempire scaffali di biblioteche, dipartimenti universitari e, in un’accezione più ampia di quella espositiva, ha plasmato in modo irreversibile le nostre vite individuali e collettive, o meglio i nostri lifestyle. Questa, almeno, è la versione di uno degli ultimi saggi stampati e tradotti sull’argomento, Curationism. How Curating Took Over the Art World and Everything Else (tradotto in italiano col titolo Curatori d’assalto), del critico canadese David Balzer. «A che cosa si deve l’ascesa del curatore? In che modoquesta attività è filtrata nella cultura di massa, o, più precisamente, nel consumismo di massa? […] La mia tesi è che, all’incirca dalla metà degli anni Novanta, ci troviamo a vivere in un tempo in cui le istituzioni e le attività commerciali affidano a terzi la gestione di un’immagine espressiva che sia garanzia di valore, nel tentativo di corteggiare varie categorie di pubblico e consumatori per stabilire solide fidelizzazioni. In quanto pubblico e consumatori, tutti noi siamo chiamati in causa per coltivare e organizzare al meglio le nostre identità seguendo le indicazioni ricevute». Balzer mette sullo stesso piano l’emersione autoriale dell’a ttività di curatela nel mondo dell’arte, e poi dell’editoria, della moda, delle attività commerciali, con l’ossessione per le playlist, i profili social, con il culto della customizzazione e della differenziazione che si è affermato nell’era cognitiva. Il sottofondo dichiarato, ma non esplicitato in ogni pagina, è la Grammatica della moltitudine di Paolo Virno, diventato paradossalmente una bibbia per moltissimi curatori: nell’interpretazione di Balzer, il processo di individuazione compiuto dalla moltitudine è messo continuamente a valore per mezzo dei curatori. E d’altra parte, «avallando collettivamente questo processo di fondazione di una certa idea di valore, tutti noi ci accolliamo, spesso involontariamente, nuove responsabilità personali e professionali». Nonostante la premessa, il libro non è affatto configurato come un saggio teorico, ma mantiene un registro fortemente narrativo, quasi mondano. A tratti assomiglia a una di quelle analisi sullo star system – del mondo letterario, architettonico, artistico – piene di notizie sui tic e le leggende di personaggi universalmente noti. Leggiamo di Obrist che siaumenta lo stipendio alla Serpentine come un parlamentare italiano; delle camicie nere di Beatrix Ruf; delle critiche feroci («Gli unici atteggiamenti dittatoriali a cui questa biennale è andata incontro sono quelli dei curatori», scrisse Ralph Rugoff a proposito della Biennale di Bonami La dittatura dello spettatore, che coinvolgeva Orozco, Tiravanija, Gioni e Obrist). La presa di distanza di Balzer non è motivata solo da ragioni stilistiche di buona scrittura e leggibilità, ma anche da una consapevole diffidenza verso l’uso sguaiato e superficiale della Theory – quell’insieme di saperi riconducibile al poststrutturalismo europeo. E in effetti, rispetto alla stagione seminale delle mostre di Restany, di Celant o di Szeeman, dominate dalla personalità egocentrica dei curatori ma in cui le opere d’arte – materiali o immateriali che fossero – restavano al centro dell’attenzione, oggi all’area dei cultural studies – messo in atto dalla genia dei curatori. In seguito alla iperprofessionalizzazione dell’attività curatoriale e della proliferazione di corsi universitari e master e residenze sul tema, si è imposta una contaminazione ottusa tra accademia e sistema delle arti, che produce mostre sempre più mainstream descritte attraverso bricolage di concetti base postopera isti o postcolonial (una mitragliata di post) rimasticati in un linguaggio al tempo stesso oscuro e iconico. E in effetti, rispetto alla stagione seminale delle mostre di Restany, di Celant o di Szeeman, dominate dalla personalità egocentrica dei curatori ma in cui le opere d’arte – materiali o immateriali che fossero – restavano al centro dell’attenzione, oggi capita più spesso di trovarsi di fronte a una folla di artisti e opere ammassati più per dimostrare la presunta profondità della ricerca del curatore che per qualsiasi motivo inerente alla loro essenza. L’ultima biennale di Okwui Enwezor, compendio di marxismo postcolonial, e la contemporanea mostra Trussardi La Grande Madre al palazzo Reale di Milano di Massimiliano Gioni, che sembrava uscita da un manuale di Gender Studies degli anni ’90, sono prodotti esemplari di questa reazionaria tendenza. Reazionaria non solo perché normalizza il conflitto, omologa la diversità delle posizioni, sussume le energie più vive del pensiero critico, mettendole al servizio della comunicazione di un brand o di istituzioni assai poco rivoluzionarie. Questa ambiguità è sempre stata presente nella storia della produzione artistica, e molti artisti hanno potuto realizzare progetti straordinari grazie a committenti reprensibili. La componente più reazionaria del sistema curatoriale, soprattutto quello indipendente, è l’a n n u l l a m e nto della critica, e in certa misura anche della produzione di contenuto, di pensiero, perché curare equivale a selezionare, cioè a un’azione sull’asse inclusione/esclusione, quanto mai esposta a criteri idiosincratici e generalmente svincolata dalla necessità di argomentare. Con l’estensione del paradigma curatoriale ad altri ambiti, per esempio nel campo editoriale o nell’accademia, lo spazio della critica si è ridotto fino all’inconsistenza, in nome del principio autoevidente della selezione: si parla solo delle cose interessanti e buone, quelle che non lo sono non vanno criticate, attaccate, ma semplicemente scartate, rimosse, condannate al silenzio. È una posizione comoda per tutti, che rafforza un sistema di relazioni completamente scollegato da valutazioni di ordine politico, etico, di affinità o incompatibilità intellettuale. La competenza più importante per un curatore è la capacità relazionale, la bravura nel tessere reti – che di orizzontale, per inciso, non hanno nulla – meglio se trasversali, plurali, terziste. Portatore di un fare tutt’altro che postideologico, anzi intrinsecamente neoliberale, il curatore è diventato così la figura chiave della fase declinante dell’industria culturale: ha sostituito la più contigua, quella dell’editor (ci sono redattori che oggi pretendono di essere definiti curatori nei colophon delle riviste), cancellando le altre competenze necessarie alla qualità dei testi. È penetrato nelle scuole e nelle accademie, dove oramai sembra che la cosa più importante sia attirare nomi prestigiosi piuttosto che organizzare la qualità dell’insegnamento. Imbastisce concorsi architettonici, ed è diventato persino un punto di riferimento fondamentale quando si pensa a un candidato sindaco, o a un assessore alla cultura, o all’urbanistica, come è successo nel caso emblematico di Edi Rama a Tirana: come se il ruolo principale di un politico fosse quello di organizzare eventi mediatici per «cambiare la percezione degli abitanti» riguardo alla propria città. Per le generazioni che si affacciano al mondo del lavoro la curatela è quasi uno status necessario alla costruzione di una qualsiasi altra prospettiva lavorativa: i giornalisti free-lance hanno bisogno di curare per mettere insieme qualche soldo, ma anche per intercettare possibilità di collaborazione a progetti, riviste, enti. I giovagiovani artisti non fanno che aprire i cosiddetti artist-run spaces, o spazi indipendenti, per consolidare attraverso una rete di scambi e comunicazione la propria precaria identità e tentare di entrare in un sistema economico. Quella che un tempo era la lineare e odiosa gavetta universitaria al seguito del barone viene elusa a opera dei più intraprendenti grazie alla cura di infiniti incontri e workshop, che debitamente registrati forniscono anche materiale, per lo più inutile ma di un certo prestigio, per le pubblicazioni. Non si può non riconoscere una grande vitalità tattica a queste operazioni che tentano di aggirare l’irrigidimento delle istituzioni culturali, di erodere i meccanismi che ne ostacolano l’accesso. Il problema è che a farne le spese è la sostanza stessa della cultura, lo spirito critico, soffocato dalla microfisica dei circuiti di scambio attivati dalla curatela. In una società di curatori tutti si intervistano a vicenda, senza contraddirsi perché non conviene. La mistificazione, la finta ricerca, la denuncia astratta, sono la norma, perché nessuno può compromettersi descrivendo quel che realmente ha davanti agli occhi, pena l’esclusione. S t o r i c amente pochi hanno il coraggio di riconoscere la nudità del re, ma in questo sistema anche il ciambellano di corte è al sicuro. 

L’antesignano Harald Szeeman (Berna 1933-Tegna 2005) è stato il geniale ideatore di Live in Your Head: When Attitudes Become Form (1969), la mostra delle mostre. Cominciò occupandosi di teatro poi, nella natale Berna, ingaggiato dalla Kunsthalle, diede vita a una serie di mostre che sconvolsero convenzioni e linguaggi, ma soprattutto posero la figura del curatore al centro della scena. Nei decenni successivi ha curato anche una Documenta e ben due edizioni consecutive della Biennale di Venezia (1999 e 2001). 

L’invenzione dell’arte povera 
Germano Celant (Genova 1940) ebbe l’intelligenza e la fortuna di inventarsi l’Arte Povera nel 1967, riunendo una serie di artisti che non erano propriamente un gruppo e dedicandogli un manifesto guerrigliero che, anche se forzato nei toni, ottenne un successo internazionale di cui ancora oggi si parla. Tutt’altro che sprovveduto, Celant lo fece fruttare piazzandosi al Guggenheim e infine firmando il patto di ferro con Prada. 

Dissacratore 
Jens Hoffmann (San José, 1974). Insieme a Maurizio Cattelan organizzò nel 1999 la “6th Caribbean Biennale”, una gigantesca presa in giro del fenomeno dilagante delle Biennali internazionali: artisti e giornalisti furono invitati a farsi una vacanza all’Isola di Saint Kitts. Niente opere. Da allora Jens Hoffmann ha continuato a dissacrare e a esplorare i miti e la storia della curatela: fondamentale When Attitudes Became Form Become Attitudes, del 2012 Il modello assoluto 

Hans Ulrich Obrist (Zurigo, 1968) è noto anche con l’acronimo Huo. Forse non è il più amato, ma certamente è il modello assoluto del curatore contemporaneo. Noto per la sua totale dedizione al lavoro –che lui stesso alimenta raccontando della propria eterna lotta contro il sonno –per i vestiti di Agnès b. e per le migliaia di interviste ad artisti, scienziati, architetti, filosofi, Huo è direttore artistico alla Serpentine Gallery di Londra. Ha canonizzato un format performativo di interviste seriali, la Marathon. 

L’enfasi e il prestigio 
Maurizio Cattelan (Padova, 1960) ha interamente allacciato la sua vita artistica ai curatori e alla curatela, enfatizzando ma anche clamorosamente sorpassando il loro prestigio. Dal sodalizio con Jens Hoffmann nacque la Biennale dei Caraibi, mentre insieme a Massimiliano Gioni, suo alter ego persino nelle interviste, ha curato la Quarta Biennale di Berlino del 2004, Of Mice and Men. Nel 2014 cura a Torino la mostra Shit and Die, e a Milano apre Le Dictateur, uno spazio indipendente, con Federico Pepe.

IL LIBRO il potere che critica il potere

Il libro si apre e si chiude con Carolyn Christov-Bakargiev, ora direttore di Rivoli e della Gam di Torino e temutissima icona della curatela internazionale, già a capo di Documenta13 e della Biennale di Istanbul. Se l’autore ha preso le mosse da una faticosissima intervista che le fece alcuni anni fa, è probabilmente perché Carolyn Christov incarna il più visibile dei paradossi legati alla sua professione: rifiuta che le vanga assegnato il titolo di curatore, piuttosto preferisce definirsi “agente” e, dopo avere accentrato un potere immenso, pretende di enunciare la critica al potere che esercita senza risparmio. È proprio questo continuo processo di demistificazione e rimistificazione a costituire, secondo Balzer, l’essenza del ruolo e le ragioni dell’ascesa della figura del curatore che, sempre più negli ultimi decenni, è divenuta una figura “d’assalto”. Un processo analogo e consustanziale allo sviluppo delle avanguardie e in seguito dell’arte concettuale, che hanno infatti nutrito e allevato i grandi archetipi dell’era “curazionista”, da Harald Szeeman e Germano Celant fino al trionfo di Hans Ulrich Obrist.