La Stampa TuttoLibri 29.10.16 
Tra figlia e madre l’amore può essere feroce
La femminista newyorkese esplora il complicato legame con un ingombrante modello femminile e domestico
di Jonathan Lethem
Quando
 ci si appresta a scrivere l’introduzione a un libro che si ama da anni e
 anni, capita di trovarsi a sfogliare l’edizione precedente, a 
rigirarsela tra le mani, a tuffarcisi dentro, a imbattersi di nuovo in 
certe frasi e di nuovo stupirsi del loro slancio e della loro 
freschezza, come davanti a una fonte di perpetua sorpresa.
Capita
 anche di tornare all’inizio, sperando di scoprire che la tua 
introduzione sia già lì, già scritta – perché la sensazione che 
quell’opera ti ha trasmesso già tante volte è questa: che conosca i tuoi
 pensieri. Il libro è un oggetto in incessante movimento, che manda di 
suo un continuo mormorio, e si può solo sperare, sfiorandolo, di 
alterare appena la sua traiettoria in modo da consegnarlo a una ribalta 
universale.
Perché non posso limitarmi ad affermare che Legami 
feroci di Vivian Gornick è un libro da leggere assolutamente? A 
insistere perché questo libro percorra le strade del mondo come un 
vessillo, quel vessillo che già è nella mia mente e che guida la mia 
marcia? E intanto, accarezzando questa vecchia edizione, leggo otto 
strilli, tutti piuttosto intensi, tutti scritti da donne; che sia io il 
primo uomo a sostenere questo libro? (Controllo un’edizione ancora 
precedente che ho nella mia libreria, e ovviamente non è così.) Il 
memoir di Vivian Gornick possiede quella cifra folle, scintillante e 
assoluta che tende a collocare un libro fuori dal contesto e poi a farlo
 diventare a buon diritto oggetto di venerazione, un «classico», un 
libro «senza tempo». E tuttavia, almeno a prima vista, si tratta di un 
memoir incentrato sui grovigli di un rapporto madre-figlia, un memoir 
scritto negli anni Ottanta (prima del boom) da una scrittrice legata in 
modo orgoglioso, se non lineare, al movimento femminista. È cosa giusta,
 allora, che io lo ami, che arrivi a brandirlo come un frammento del mio
 cuore? Sì. La fascinazione che avvince il lettore di Legami
feroci
 non ha niente a che vedere con una stolida curiosità per i dettagli 
della vita di Gornick o di sua madre, né con una facile immedesimazione 
legata a somiglianze o a contesti sovrapponibili, e nemmeno con la 
comunanza di genere.
L’immedesimazione, in Legami feroci, funziona per altre vie.
Quando
 ci immergiamo nella franchezza bruciante e all’apparenza spiccia del 
libro, ci rendiamo conto di diventare Vivian Gornick (o la voce narrante
 che porta il suo nome), proprio come diventiamo sua madre, e poi Nettie
 Levine, la giovane vicina passionale e nichilista che diventa il terzo 
personaggio principale del libro, formando con la madre e con la figlia 
quello che Richard Howard ha definito «L’intreccio affettivo ed erotico 
con il quale noi triangoliamo le nostre vite».
Eppure il nostro 
senso di immedesimazione non si limita a queste tre donne. Lungo il 
percorso del disvelamento di sé, Gornick ci trascina in brevi, 
ustionanti alleanze con tre uomini, amanti e mariti: Stefan, Davey e 
Joe. E anche, en passant, con una manciata di altri vicini del Bronx, 
con una psichiatra, e ovviamente con l’inafferrabile padre. Fornendo a 
ogni attore in scena occhi con i quali osservare la narratrice che lo 
guarda, e una voce per rivaleggiare con lei in acume, Gornick ha inciso 
queste figure, per quanto fulminee, vive sulla pagina. Nessuno sfugge al
 suo sguardo né lei sfugge a quello altrui. Non sto parlando di 
imparzialità, virtù sopravvalutata in letteratura e forse anche nella 
vita. Si può affermare che Gornick demolisce il suo cast di personaggi, 
ma secondo questo parametro demolirebbe anche se stessa. Io preferisco 
dire che, come un mago che sfila la tovaglia da una tavola 
apparecchiata, riesce nel miracolo di lasciare se stessa e i suoi 
protagonisti intatti e rifulgenti di quello che credo non si possa che 
chiamare amore. Un amore senza sconti.
Questa potrebbe essere una 
chiusa niente male, ma cedo alla tentazione di un ulteriore tributo, da 
scrittore e da uomo, alla memorialista e saggista che insieme a Phillip 
Lopate e Geoff Dyer mi ha insegnato tutto quello che so sull’arte di 
depurare dalle idiozie le frasi che riguardano me stesso. Detesto 
ricorrere all’epiteto «uno scrittore per scrittori», ma Legami feroci 
chiama l’applauso che si deve all’opera di un tecnico sopraffino; il 
controllo di una forma distillata della scena e del dialogo, delle 
battute fulminanti e trattenute, dell’uso degli spazi bianchi sulla 
pagina induce a chiedersi come mai non si sia mai misurata con la 
narrativa di finzione verso la quale dichiara in maniera così pregnante 
il suo amore nei saggi critici. Come molta della scrittura che amo di 
più, anche Legami feroci prende forza dall’uso del paradosso. Queste 
pagine contengono la descrizione che più amo del momento in cui un 
aspirante scrittore si rende conto di essere uno scrittore e basta, nel 
bene e nel male, senza badare a quanto appare nebuloso il cammino che ha
 davanti. Nel secondo anno del mio matrimonio fece per la prima volta la
 sua comparsa dentro di me lo spazio rettangolare. Stavo scrivendo un 
saggio critico, un esercizio da specializzanda che mi era sbocciato 
senza preavviso nel pensiero, un pensiero pieno e raggiante. Le frasi 
cominciarono a sgorgare dentro di me, premendo per uscire; l’una 
guizzava all’inseguimento di quella prima. Mi resi conto all’improvviso 
di essere sotto il controllo di un’immagine: ne vedevo chiara la forma e
 il contorno. Le frasi cercavano di riempire quella forma. L’immagine 
era l’interezza del mio pensiero. In quel preciso istante mi sentii come
 spalancare. I miei contorni interiori si aprirono a formare quel 
rettangolo libero, tutto aria tersa e spazio vuoto, che mi partiva dalla
 fronte e finiva nell’inguine. Al centro del rettangolo solo la mia 
idea, in attesa di definirsi. In quel momento sperimentai una gioia che 
sapevo non sarebbe stata mai eguagliata.
Più avanti nel libro 
Gornick pare rimpiangere l’incapacità di questo rettangolo di allignare,
 di espandersi, di includere una parte più grande della sua vita. Il 
paradosso è doppio: il libro che avete tra le mani, lo stess
o 
libro che descrive questa resistenza e questa frustrazione, è la prova 
che il rettangolo di Gornick ha fatto proprio questo, è cresciuto fino a
 inglobare non solo la sua vita ma, per la durata del libro, anche 
quella del lettore. E tuttavia, nonostante l’ampiezza dei suoi confini, 
rimane precisamente intimo e particolare come nella prima descrizione 
della sua comparsa: della misura esatta del suo corpo.
copyright 2005 by Jonathan Lethem
 
