CULTURA
Corriere 30.10.16
Einstein, il genio che riscrisse la fisica (e divenne popolare come Marilyn )
di Giovanni Caprara
La teoria della relatività, che previde le onde gravitazionali, fu una rivoluzione Solitario, libero, ironico: un mito per gli studiosi ma anche per la gente comune
Lo scorso febbraio, al National Press Club di Washington, gli scienziati americani hanno annunciato la scoperta delle onde gravitazionali. Le prime parole nell’annuncio della grande scoperta pronunciate da David Reitze, direttore dell’esperimento Ligo con il quale si era raggiunto il risultato, erano dedicate ad Albert Einstein. Non poteva essere diversamente. Einstein le aveva previste nella sua teoria della relatività generale esattamente cento anni fa, e da allora si era cercato in tutti i modi di catturarle. Sembrava un sogno irraggiungibile complice la tecnologia non abbastanza evoluta. Ma la caccia continuava perché la loro scoperta avrebbe aperto una nuova finestra sull’universo, rivelando una realtà altrimenti impossibile.
Gli esami per Einstein sembrano non finire mai. Del resto, con le sue idee rivoluzionò la fisica, andando oltre Isaac Newton, e le onde gravitazionali sono soltanto una delle ultime tappe della nuova storia della fisica scritta da lui. Un’altra attende la prova diretta, o meglio l’identificazione della natura perché la sua esistenza è già stata confermata: è l’energia oscura che permea il 70 per cento dell’Universo. Anch’essa è stata concepita dal genio, sempre nella sua teoria della relatività, per mantenere viva la descrizione di un universo stazionario allora in voga, mentre le sue idee sulla gravità portavano a un universo dinamico. A questo scopo, aveva inserito nelle equazioni la «costante cosmologica», che definì «il mio più grande errore» quando nel 1929 Edwin Hubble scoprì che l’universo si espandeva.
In realtà la costante cosmologica rimaneva altrettanto valida per spiegare l’espansione, e così Einstein aveva ragione pure quando sbagliava.
Ma la grandezza del genio di Ulm (dove era nato) e le sue concezioni sono rimaste controverse e non accettate da molti per diversi anni, fino a quando, nel 1919, un esperimento non dimostrò uno degli aspetti fondamentali della sua teoria e cioè che la forza gravitazionale di un corpo celeste poteva deviare la luce. L’astrofisico britannico Arthur Eddington affrontò una spedizione sull’isola di Principe nel golfo di Guinea, nell’Oceano Atlantico, per provare a misurare, in occasione di un eclissi, lo straordinario effetto. Pur tra non poche difficoltà, ci riuscì. Era stato quello il primo esame per Einstein: avendolo superato, diventò un mito non solo per gli scienziati che da allora avrebbero accettato senza riserve le sue intuizioni, ma anche per la gente comune, che nel genio avrebbe visto l’espressione più eccezionale e sublime dell’intelligenza.
A colpire l’immaginazione intervengono il personaggio, la sua storia e la sua capacità di stupire con le parole e i pensieri non scientifici, oltre che con le formule. Con Einstein si può dire, infatti, sia nata una nuova filosofia.
Colpivano la sua vita solitaria all’Ufficio brevetti di Berna e la sua rivoluzione nella fisica costruita nel tempo libero, impressionavano la sua determinazione a sentirsi «cittadino del mondo», la sua idea di libertà («La libertà — diceva — consiste nell’indipendenza dai pregiudizi sociali»), affascinavano le sue passioni, musica compresa, tanto che si faceva volentieri fotografare mentre suonava il violino. Stupivano l’ironia e le battute folgoranti: «Solo due cose — sosteneva — sono infinite: l’universo e la stupidità umana. Riguardo all’universo ho ancora qualche dubbio». Nella popolarità gareggiava con Marilyn Monroe e i suoi poster sono ancora oggi un affare, oltre che un simbolo da appendere alla parete per ogni studente.
La sua vita con le donne non fu mai facile, sia per il carattere, sia per i tradimenti. E nonostante gli offrissero incarichi di ogni genere — compreso quello di secondo presidente del nuovo Stato di Israele — preferiva un’esistenza libera, espressa anche dal suo modo unico di vestire, dalle passeggiate con gli amici lungo il viale alberato di Princeton davanti alla sua casa di legno dipinta di bianco.
Eppure influì su scelte capaci di segnare la storia dell’uomo. La decisione, da parte del presidente Franklin D. Roosevelt, di costruire la bomba atomica intervenne dopo una lettera di Einstein che esprimeva il timore che la Germania di Hitler arrivasse al terribile risultato prima di ogni altro.
Dopo le grandi scoperte Albert Einstein inseguiva un sogno mai raggiunto: la possibilità di concepire una teoria unica capace di descrivere la natura. Quell’aspirazione, di cui la leggenda racconta che gli ultimi appunti fossero sul comodino accanto al suo letto di morte all’ospedale di Princeton il 18 aprile 1955, è ancora senza risposta. Quasi un’eredità agli scienziati, che traccia la nuova via da seguire. Intanto il mito sopravvive senza ombre e le riviste scientifiche si chiedono: quando nascerà il nuovo Einstein?
Ecco perché il suo nome apre la collana «Grandangolo Scienza», che racconta le storie dei geni che con le loro scoperte hanno segnato il passato e preparato il futuro.
Corriere 30.10.16
Le libertà dell’individuo pesano sulla demografia
L’assenza di asili nido, la crisi e la precarietà del lavoro c’entrano nella diminuzione delle nascite
Ma chi rinuncia ai bambini spesso lo fa per difendere il suo obiettivo principale: un certo tipo di benessere
E così ormai il numero dei nonni supera quello dei nipoti
di Giovanni Belardelli
L entamente ma inesorabilmente la demografia sta occupando uno spazio sempre maggiore nel nostro discorso pubblico. Non era mai successo, se si esclude il ventennio fascista. Ma ai tempi di Mussolini la centralità della questione demografica e la connessa politica natalista del regime (sostegno alle coppie prolifiche, tassa sui celibi e così via) erano finalizzate a obiettivi di potenza militare, nella illusoria convinzione che questa fosse direttamente dipendente dal «numero» (della popolazione). Oggi l’ottica con cui guardiamo ai dati demografici è del tutto diversa; è legata anzitutto al timore che il drammatico calo delle nascite possa segnalare la crisi di un intero modello di vita. È infatti difficile non pensare che qualche relazione debba pur esservi tra un’Europa che si trova sempre meno al centro del mondo e la drastica diminuzione delle nascite: se un secolo fa gli europei erano un quarto della popolazione del pianeta, oggi ne rappresentano solo il 7 per cento.
Il quadro diventa ancora più impressionante se guardiamo all’Italia. Avevamo appena archiviato i dati Istat relativi al 2015, che denunciavano per la prima volta dal 1861 la discesa delle nascite annuali sotto le 500 mila unità, quando sono arrivate, sempre a cura dell’Istat, le proiezioni per l’anno in corso: segnalano un ulteriore calo del 6 per cento nel 2016 rispetto al 2015. Sono dati noti, che cominciano finalmente ad avere l’attenzione che meritano sui media. Così, anche in relazione a quei dati, si è giustamente criticato il fatto che il governo, quando si tratta della spesa sociale, presti assai più attenzione agli anziani che ai giovani, mancando di varare politiche di sostegno in favore della famiglia — dalla disponibilità di asili nido a forme di aiuto economico che vadano oltre il poco efficace strumento del bonus — come esistono in altri Paesi europei.
Ma è anche vero, e qualcuno timidamente comincia ad osservarlo, che difficilmente la denatalità record, dell’Italia come di altri Paesi sviluppati, può essere contrastata con le politiche di welfare. O meglio: queste possono arginare temporaneamente il fenomeno ma — come dimostra il caso della Germania, che ha politiche di sostegno alla natalità incomparabili con quelle italiane — non invertire una tendenza che rimanda a caratteri di fondo della civilizzazione occidentale. In particolare a quello che ne è stato e ne è il vero centro propulsore: la libertà individuale. È appunto questa libertà, oltre che ovviamente i progressi nel controllo delle nascite, che sta dietro la decisione di una donna o di una coppia di avere figli o non averne. In società come le nostre, nelle quali la sicurezza di un certo benessere è diventata un obiettivo irrinunciabile ma contemporaneamente sempre più a rischio, questa libertà può arrivare fino alla scelta di una esistenza childfree, come la rivista americana Time titolava tre anni fa una sua copertina, che raffigurava una giovane coppia senza figli sdraiata a prendere il sole in qualche località esotica. L’assenza di asili nido, la crisi economica, la precarietà del lavoro c’entrano nella diminuzione delle nascite, ovviamente. E dunque le politiche a favore della famiglia sono importanti. Ma nessuna politica potrà modificare la possibilità, e spesso la scelta, di non volere avere figli o volerne avere al massimo uno (numero insufficiente, come si sa, ad evitare la diminuzione della popolazione). Tornare indietro, rinunciare alla libertà di scelta di cui meniamo giustamente vanto, è impensabile. Ma almeno dovremmo cominciare ad acquisire consapevolezza di ciò che abbiamo creato grazie al sommarsi del calo delle nascite con l’aumento della speranza di vita: abbiamo creato una società nella quale, per la prima volta nella storia umana, gli anziani sono più dei giovani. L’Italia del boom economico era un Paese dinamico e vitale anche perché aveva grosso modo il doppio delle nascite (quasi un milione nel 1964) rispetto a oggi. Non sappiamo quale propensione all’innovazione, quale sguardo verso il futuro, potrà avere una società in cui il numero dei nonni sup era ormai quello dei nipoti.
Corriere La Lettura 30.10.16
La vera Monaca di Monza
Controriforma Una mostra nella città lombarda sulla religiosa immortalata da Manzoni
Rinchiusa in convento, stuprata, condannata e murata viva
Poi elevata a icona del pentimento. I dolori di suor Virginia
di Eleonora Belligni
Il 29 luglio 1900 l’anarchico Gaetano Bresci assassinò a Monza Umberto I di Savoia, re d’Italia. Nemmeno il regicidio, tuttavia, riuscì a oscurare la fama di un fatto di sangue avvenuto in città tre secoli prima. Non un solo omicidio, ma una vera strage, consumatasi attorno al monastero benedettino di Santa Margherita: un antico convento, fondato dalle Umiliate sulle rive del Lambro, a cui si accedeva da un vicolo che, da quei giorni funesti, si chiamò «via della Signora». Vi trascorrevano i giorni, tra celle, chiostro e parlatorio, non più di 20 monache, sottoposte all’autorità dell’arcivescovo milanese, al tempo il potente cardinale Federico (detto da Manzoni Federigo) Borromeo. Tra le sorelle, professa dal 1591 con l’incarico di «sacristana et soprastante alle putte secolari», c’era suor Virginia, «la Signora»: cosiddetta perché, per delega paterna, esercitava i poteri signorili sul feudo di Monza. Immortalata dalle pagine del Fermo e Lucia , e poi dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni sotto le spoglie di Gertrude, è ancor oggi per antonomasia «la Monaca di Monza».
Fino al 19 febbraio 2017 nelle sale del Serrone della Villa Reale della Reggia, Monza rende omaggio in una mostra alla sua storia e alla fortuna postuma. Virginia Maria de Leyva, al secolo Marianna, visse una vita lunga, dal 1575 al 1650, segnata da orribili eventi e sofferenze atroci. Nel 1608 l’arcivescovo Borromeo, giunto a conoscenza di una catena di delitti in Monza, ordinò un processo canonico nei suoi confronti. La suora confessò d’essere amante e complice del dirimpettaio del convento, Gian Paolo Osio, padre dei suoi due figli (uno dei quali nato morto), che, per far tacere le voci sulla loro relazione, aveva ucciso e ferito a morte ben cinque persone. Tra queste c’era anche una giovane conversa, Caterina, che Osio aveva decapitato e smembrato. Gli interrogatori ricostruirono una fitta trama di correità: l’omertà di alcune consorelle, la connivenza di altre; la complicità passiva della superiora; quella, spesso attiva, del personale di servizio al convento, nonché il coinvolgimento morboso del curato di San Maurizio, Paolo Arrigone. Virginia, pur invocando il maleficio d’amore come attenuante, fu condannata a essere murata viva per 13 anni al ritiro di Santa Valeria a Milano. Sopravvissuta a quella prigionia terribile, divenne simbolo della penitente ideale: tanto che lo stesso Borromeo si disse vinto dalla sua sincera conversione e ne stese, a memoria dei posteri, una breve biografia.
La voce delle donne dalla prima Età Moderna ci giunge spesso attraverso le carte processuali. È la voce di criminali o di vittime, di imputati o di testimoni, i cui ruoli si confondono tra le pagine dei verbali. È la voce di migliaia di sventurate costrette — manzonianamente — a rispondere loro malgrado. Si leva da colonne infami di atti registrati, da documenti che sono viziati dall’idea di colpa, di peccato sovrapposto al reato: le sole tracce, il più delle volte, della loro esistenza. È un suono per orecchie maschili, quelle di giudici e inquisitori, che tendono a piegarla a logiche di sopraffazione e a professarne l’inferiorità anche quando, con le migliori intenzioni, si ergono a protettori e dispensatori di misericordia. Lo storico, di tali voci, non registra che gli echi, lontani e distorti. Dal silenzio del chiostro, poi, essi risuonano ancora più flebili: le donne sottratte al mondo e alla giustizia secolare, specie le nobili, compaiono in giudizio solo in casi assai rari.
Il clamore levatosi dal processo della Monaca di Monza ruppe invece la barriera delle cautele sociali, propagandosi nel tempo. Non fu l’eccezionalità del crimine, della criminale o del contesto a fare di Virginia una figura da consegnare ai posteri, ma ancora una volta la volontà di un gruppo di uomini, governati da inclinazioni di natura diversa. Un padre, un amante, un prete, i giudici, un cardinale-padre spirituale: costoro, nella doppia veste di liberatori e carcerieri, prima la privarono della facoltà di scegliere, poi la stigmatizzarono, poi ne fecero un’icona.
Il padre Martino, per Manzoni crudele e manipolatore, era nella realtà il figlio cadetto di una grande famiglia spagnola che, al pari degli altri genitori, considerava la figlia una risorsa economica da allocare con prudenza. Nessuna violenza effettiva, nessuna violazione delle norme canoniche: Marianna entrò in convento a 13 anni, e a 16 era suor Virginia, senza avere mai carezzato l’idea di un’alternativa.
La violenza, fisica e psicologica, sarebbe venuta da Osio: al corteggiamento seguì lo stupro e poi l’ossessione amorosa, a cui la giovane si aggrappò per fuggire alla claustrofobia del convento. Le fonti processuali confermano ciò che sappiamo della clausura in Età Moderna. Intorno a Virginia e alle consorelle ferveva un microcosmo zeppo di passioni e di interessi, materiali e immateriali, che spingevano le monache a stringere alleanze e fomentare conflitti, a contravvenire alle regole e cercare contatti con il mondo, a ricavarsi spazi emotivi e affettivi, a combattere il conformismo degli abiti, dei cibi, dei rituali quotidiani, delle devozioni. Scavare un buco nel muro, farsi corteggiare attraverso le crepe e dai tetti dei palazzi, coltivare un pezzo d’orto che fosse il proprio, far crescere i capelli, tenere un animale, attardarsi in parlatorio, pretendere privilegi e servizi destinati alle secolari, scambiare merci con l’esterno, infrangere il voto del silenzio, spezzare l’obbligo all’ignoranza e alla quiescenza leggendo libri proibiti, scrivendo memorie, conti, trattati: giù per una china di disobbedienza che a volte le monache non risalivano, che le portava a fornicare con i confessori, a stringere relazioni, a nascondere gravidanze.
Tutte queste pratiche disperate costellavano la Controriforma delle religiose, che il frammentarsi dei patrimoni spingeva al chiostro più che in passato e che l’attrazione per il secolo, un passo oltre le mura, induceva all’insofferenza. Ben lo sapeva la Chiesa, che aveva provato a sanzionare le monacazioni forzate ma che, a 40 anni dal Concilio di Trento, si trovava di fronte un panorama ormai antico: un clero ingovernabile, ignorante e peccatore, quando non criminale. Un risultato ben diverso da quello perseguito dai Borromeo, rappresentato dal curato Arrigone, laido corteggiatore di Virginia e delle consorelle, abile prestigiatore dei casi di coscienza, complice nei delitti di Santa Margherita. Eppure fu proprio il cardinal Federico, l’ultimo attore di questa recita maschile, a trasformare lo scandalo in risorsa, a volgere il pentimento di Virginia, seguito alla carcerazione, nel successo della sua politica di disciplinamento e di controllo dei comportamenti religiosi.
Come un ambiguo spettro, teso tra dissolutezza e santità, dal giorno della sua morte la Signora abita l’immaginario italiano e straniero. Il fantasma fu prima invocato dai cattolici a evocare la grazia divina vincitrice sulla corruzione. Poi, tra l’illuminismo di Diderot e l’Ottocento liberale e anticlericale, fu chiamato a mostrare la vana ferocia delle monacazioni forzate, del sistema del maggiorasco, della condizione femminile in un passato superstizioso e oscurantista. Le sventurate si moltiplicarono su carta e su tela, poi su celluloide, dando vita a drammi di reclusione, talvolta ad avventure scabrose. Dalle pagine storiche di Ripamonti e Cantù alla finzione letteraria di Manzoni, dall’iconografia dei dipinti ai fotogrammi, tra gotico e didascalico, Virginia de Leyva non sembra aver perso oggi nulla di quel fascino drammatico che sedusse prima il malvivente Osio, poi il grande Federico Borromeo.
Corriere La Lettura 30.10.16
San Kafka ha perso l’aureola. Finalmente
Risentimenti, tremori, vigliaccherie, inimicizie, amori postribolari. E un insano debole per la birra. Reiner Stach ci restituisce una figura ripulita da tutti gli elementi agiografici
di Alessandro Piperno
Dicesi «kafkologia» la perniciosa propensione di molti critici e troppi lettori a trasfigurare la figura di Kafka in modo religioso, tralasciando lo strabiliante genio artistico. Milan Kundera attribuisce a Max Brod, il fedele amico di Kafka, l’invenzione di questa religione ridicola: il Kafka santo, profeta e martire... ok, ci chiede Kundera, ma in tutto questo che fine ha fatto l’artista? Brod, intuendo che i santi, ancor meglio se martiri e profeti, tirano assai più degli artisti, ha agito di conseguenza. E Kundera, senza disconoscergli il merito di aver salvato dall’oblio uno dei massimi narratori di sempre, lo accusa però di avergli cucito addosso una maschera troppo seducente per essere rimossa: quella del santarellino igienista, tremebondo e illibato. È come se la misteriosa narrativa di Kafka svanisse al cospetto del mistero della sua vita. Del resto, la cosa non deve stupire: sebbene l’opera di Kafka non sia affatto autobiografica, in un certo senso, come tutte le grandi opere (Tolstoj, Proust), lo è irreversibilmente e senza scampo. Il guaio è che, dando troppo peso alla biografia, prendendola sul serio fin quasi a stravolgerla, si rischia di compromettere il piacere dell’immersione in un ecosistema romanzesco senza precedenti, che mescola realismo, incubo e umorismo in una pasta inconfondibile e sconvolgente. Occorre notare inoltre che Kafka mantiene sempre un’intensità altissima. È difficile trovare nei romanzi incompiuti, nei racconti, nei diari, per non dire delle lettere, una riga che non sia degna di essere incorniciata. Non mi vengono in mente esempi analoghi; ogni tanto persino Tolstoj e Proust sbagliano: Kafka no, lui non sbaglia mai, per via forse di una molto ebraica mancanza di auto-indulgenza. E si sa: l’auto-indulgenza è la subdola nemica del talento.
Ma non è solo questo il danno prodotto dall’agiografia kafkiana sulla ricezione dell’opera. La santità di Kafka ci fa perdere il meglio: l’umanità delle sue pagine, l’intransigenza flaubertiana con cui sono scritte, la comicità singolarissima, le ossessioni erotiche di cui trasuda la sua narrativa.
Anche per questo ho amato molto il libro di Reiner Stach il cui titolo sembra la domanda retorica di un uomo deluso: Questo è Kafka? Come a dire: tutto qui? Mi è piaciuto perché il ritratto offerto da questo smilzo, appassionante libretto è una panacea alla kafkologia imperante. L’antidoto che cercavo. È un gustoso, ma anche penoso, controcanto dei capolavori kafkiani, e in tal senso fornisce un contributo eccellente alla scoperta di uno dei massimi scrittori del XX secolo (in giorni come questo mi sembra il più grande). Bisogna sapere che Reiner Stach ha consacrato la vita di studioso a Kafka, dedicandogli monografie monumentali. Ma ora se ne esce con questa raccolta di brevi ritratti, novantanove per la precisione, in ognuno dei quali ci offre un lato della complessa personalità kafkiana.
Di norma le biografie mi annoiano da morire. Tutti quei fatterelli anodini, disordinati e squallidi mi fanno sbadigliare. Ma da qualche tempo a questa parte è nata la virtuosa consuetudine di comporre ritratti biografici riesumando reperti antiquariali (pezzi di lettere, fotografie, ricevute, testimonianze di amici più o meno benevoli, immagini di repertorio) capaci di creare tranche de vie che restituiscono l’atmosfera di una vita. E mica una vita qualsiasi, una vita apparentemente banale, che chissà come (il mistero inviolabile del genio) ha saputo concepire La metamorfosi , La colonia penale , Il castello e chi più ne ha più ne metta.
Come la biografia-capolavoro di Salinger scritta da Shane Salerno e David Shields, anche Questo era Kafka? è uno scrigno ricolmo di oggetti d’antan, persino un po’ kitsch, a loro modo toccanti come tutte le cose vecchie e perdute. Un museo della vita di Kafka, di quelli che sarebbero piaciuti a Sebald. Il santarellino in queste pagine si sfila l’aureola. Lo scopriamo non esente da risentimenti, tremori, vigliaccherie, inimicizie, amori postribolari e un insano debole per la birra. È un uomo che ci somiglia.
Leggevo e soffrivo. Soffrivo e leggevo. Ma un po’ mi veniva anche da ridere. Uno dei capitoletti che ho amato di più s’intitola: «Kafka non sa mentire». In esso Stach dà conto di quel modo tipicamente kafkiano (e quando dico così intendo tipico di Kafka e non certo tipico di quell’atteggiamento verso la burocrazia per cui ormai l’aggettivo è celebre) di scrupolo e circospezione nei confronti del mondo. Quel senso laico della moralità continuamente allertato dalla paura di essere puniti da una forza misteriosa e tumultuosa che ci sovrasta. «Kafka poteva superare gli scrupoli verso le menzogne solo se queste non facevano il suo interesse». Del resto «mentire contro l’interesse degli altri, e per di più a voce, poteva diventare per Kafka un problema insuperabile». Stach ricorda uno degli eventi più penosi degli ultimi anni di Kafka. Quando la sua relazione con Milena Jesenská iniziò a traballare. I due si sarebbero dovuti vedere a Vienna per un convegno amoroso. Milena lo aveva pregato di raccontare una balla in ufficio per ottenere qualche giorno di vacanza, arrivando a suggerirgli di inventare uno zio malato, «uno zio Oskar o una zia Klara in gravi condizioni di salute». Kafka ci provò, si presentò dai suoi superiori, ma alla fine non riuscì a farlo. Lo stralcio di lettera riportato da Stach con cui Kafka la butta un po’ in caciara per giustificare l’ennesima insipienza, l’ennesimo atto di viltà, è talmente emblematico di Kafka che non ci sarebbe quasi nient’altro da aggiungere: «Anche prescindendo da tutto il resto, credi forse che sarei capace di andare dal direttore a raccontargli della zia Klara senza mettermi a ridere?... È davvero impossibile. È un bene che non ci sia più bisogno di lei. Può anche morire, in fondo non è sola, al suo fianco c’è Oskar. Fra l’altro, chi è Oskar? La zia Klara è la zia Klara, ma chi è Oskar? In ogni caso le è vicino. Speriamo che non si ammali pure lui, quel cacciatore di eredità».
Come si vede, Kafka usa l’ironia per esorcizzare il suo fallimento. Dicono più queste poche righe dell’opera di Kafka di molti saggi ampollosi che gli sono stati dedicati. Perché non riesce a mentire? Perché teme la punizione. Quale punizione? Una punizione dei superiori? Una punizione che viene dall’alto? Macché: la più temibile delle punizioni: quelle che siamo soliti infliggerci quando abbiamo paura e quando ci vergogniamo.
Il Sole Domenica 30.10.16
La Grande Guerra
Verdun, la battaglia infinita
di Emilio Gentile
Il combattimento è stato trasfigurato come epico ma non fu né decisivo né il più cruento.
I diari di Ernst Jünger, un documento prezioso per una storia antropologica del conflitto
Fra la fine di ottobre e l’inizio di novembre del 1916, l’esercito francese, dopo trecento giorni di combattimenti attorno alla città di Verdun, cominciò a riconquistare il terreno che aveva perso in seguito all’offensiva lanciata dall’esercito tedesco il 21 febbraio di quello stesso anno. Fu la battaglia più lunga della Grande Guerra, una successione di offensive senza vincitore, che non aveva «niente di simile a una battaglia vera e propria», perché «lo stesso gioco può ripetersi senza limiti», come scrisse un analista militare francese nell’aprile del 1916, pensando che «non sarà mai possibile mettere la parola fine alla battaglia di Verdun». Per trecento giorni furono usate tutte le armi più moderne e più micidiali, compresi i gas. Morirono 300mila soldati fra tedeschi e francesi. Altrettanto numerosi furono i feriti, i mutilati, i prigionieri. Interi paesi furono rasi al suolo, boschi e colline furono bruciati e cancellati in un paesaggio lunare di crateri scavati da mesi di bombardamenti, fra labirinti di trincee e selve di reticolati.
Nella memoria francese, la battaglia di Verdun è stata monumentalizzata come la grande battaglia della resistenza contro l’invasore. Di fatto, fu l’ultimo grande successo in battaglia conseguito dell’esercito francese, che nelle guerre successive, fino al periodo della decolonizzazione, ebbe solo disfatte.
Un alone leggendario trasfigurò la battaglia di Verdun da «una noiosa guerra di logoramento in un epico scontro tra bene e male». Questo è il giudizio dello storico americano Paul Jankowski nel centenario della Grande Guerra. Seguendo il proposito dello storico francese Jean-Baptiste Duroselle («dal simbolo dobbiamo estrarre la realtà»), egli ha sfrondato la battaglia di Verdun di molti attributi leggendari, in un libro che inserisce l’evento militare nella nuova storiografia antropologica della Grande Guerra.
In realtà, osserva lo storico americano, per i francesi Verdun non fu una battaglia decisiva come quella della Marna, che nel settembre del 1914 aveva arrestato l’avanzata tedesca verso Parigi. Non fu neppure la battaglia più cruenta della Grande Guerra, perché altre battaglie fecero più vittime, come l’avanzata tedesca fra agosto e settembre del 1914. E non fu una battaglia risolutiva per i tedeschi, che dopo trecento giorni di violentissimi combattimenti e centinaia di migliaia di perdite, si ritrovarono al punto di partenza. L’affermazione fatta dopo la guerra dall’artefice dell’offensiva, il generale Erich von Falkenhayn, capo di Stato maggiore tedesco, il quale sostenne che non alla vittoria aveva mirato, ma al “dissanguamento” della Francia, era una patetica giustificazione postuma. Tuttavia, anche per i tedeschi la battaglia di Verdun divenne un simbolo eroico più della battaglia della Somme, che fu altrettanto lunga e sanguinosa, iniziata il 1° luglio del 1916 ed esaurita nel novembre successivo. «Verdun, a differenza della Somme, non produsse alcun Ernst Jünger, l’autore del celebre memoriale di Trincea Nelle tempeste d’acciaio», fa notare Jankowski.
In effetti, Jünger non prese parte alla battaglia di Verdun, ma per una curiosa coincidenza, proprio a Verdun, nell’ottobre del 1913, il diciottenne tedesco, fuggito dalla Germania, si era arruolato nella Legione straniera, e fu subito spedito in Algeria. Solo per l’intervento del padre, con appoggio diplomatico, fu permesso al giovane legionario il ritorno in Germania il 25 dicembre. Lo studente Jünger odiava la scuola e sognava una avventurosa vita da soldato. Così, nell’agosto del 1914, corse ad arruolarsi volontario. Il 6 ottobre 1915 annotava: «Sono entrato nell’esercito un anno fa per vivere delle avventure. (Triste ma vero!)». Al fronte rimase dal 30 dicembre 1914 al 26 agosto 1918, combatté coraggiosamente rischiando più volte la morte; subì sette ferite, alcune delle quali molto gravi, e meritò le più alte onorificenze al valore.
Durante tutta la permanenza al fronte, Jünger scrisse un diario, che divenne il materiale grezzo dal quale, rielaborandolo nel pensiero e nello stile, trasse i libri sulla sua esperienza bellica, che lo hanno reso celebre. Ma i libri nulla tolgono al diario come testimonianza diretta di una singolare partecipazione alla guerra di un giovane, che si sente «soldato anima e corpo»; che dalla guerra è affascinato come esperienza e come spettacolo; che combatte con furore di guerriero, ma senza esaltazione nazionalista, deciso a uccidere il nemico ma senza odiarlo, e anzi rispettandolo; che si espone volontariamente al pericolo indifferente alla morte, perché considera il coraggio «l’unica virtù dell’uomo», e crede che «solo nel rischio è il gusto della vita. O mi arricchirò di un’esperienza impagabile o ci lascerò le penne», scrisse il 25 febbraio 1916, all’inizio della battaglia di Verdun.
Il giovane soldato non ignorava gli orrori della guerra, descritti spesso nel diario con crudo realismo. Detestava i comandanti che conducevano la guerra dalle retrovie, «mentre noi carne da macello del fronte siamo abbastanza in gamba da farci massacrare a colpi di arma da fuoco» (25 luglio 1916). L’anno successivo, anche il guerriero entusiasta era consapevole del proprio «abbrutimento causato dalla guerra» e si domandava: «quando finirà questa guerra di merda» (24 aprile 1917).
La scrittura del diario fu per Jünger un modo per trascendere l’orrore della guerra con uno sforzo di obiettività nel descriverla in tutti i suoi aspetti, soprattutto per ciò che rivela dell’essere umano: «Io non sono un corrispondente di guerra, io non presento nessuna collezione di eroi. Non voglio descrivere come avrebbe potuto essere, ma com’è stata», scriveva nelle ultime annotazioni alla fine della guerra. «L’essere umano è imprevedibile, stando a contatto con lui si deve essere pronti a tutto. Non c’è nulla che non ci si possa aspettare, nulla che non ci sia da temere da lui. Proprio lì dove la sua volontà si potenzia al massimo, in guerra, accanto ai valori più alti si spalancano abissi di brutale meschinità. Là dove un uomo ha raggiunto il livello di perfezione più vicino a Dio, la disinteressata dedizione a un ideale fino all’estremo sacrificio, se ne trova un altro dal corpo ormai freddo a cui frugare avidamente nelle tasche». Nella rielaborazione dei diari in libro, il reduce si proponeva una descrizione obiettiva dell’esperienza bellica. Pur consapevole che la «assoluta obiettività è irraggiungibile», egli riteneva che il «grado di obiettività di una persona dà la misura del suo valore spirituale». Con il suo grado di obiettività, il diario di Jünger è forse il documento più autentico per una storia antropologica della Grande Guerra.
Paul Jankowski, La battaglia di Verdun, il Mulino, Bologna, pagg. 404, € 29;
Ernst Jünger, Diario di guerra 1914-1918, a cura di Helmuth Kiesel, LEG Edizioni, Gorizia, pagg. 642, € 28
Il Sole Domenica 30.10.16
Tra Italia e Urss
Gobetti e lo «spirito» russo
di Gennaro Sangiuliano
Può apparire singolare che un intellettuale così dentro la cultura italiana come Piero Gobetti si sia interessato della Russia, scrivendo un saggio esemplare, dal titolo Paradosso dello spirito russo, che in alcuni passaggi, ancora oggi, presenta elementi di grande attualità. Eppure, lo si comprende alla luce dello spirito poliedrico che animò l’azione culturale di Gobetti, a cominciare dall’esperienza della rivista «La Rivoluzione liberale», aderente sempre a uno studio scevro di pregiudizi che lo indusse a ritenere che la Russia non andasse liquidata attraverso banali stereotipi ma dovesse diventare oggetto di una valutazione, capace di coglierne lo spirito.
Le Edizioni Storia e Letteratura ripropongono il saggio gobettiano che uscì in prima edizione nel 1926 per le Edizioni del Baretti. Gobetti era stato un curioso osservatore delle vicende legate alla Rivoluzione bolscevica e pur essendo un liberale, chiaramente antimarxista, ne aveva colto il valore storico, di evento epocale capace di liberare «energie profonde nelle masse popolari».
Capire la Russia significa prendere le mosse dal suo complesso rapporto con l’Asia e l’Europa, «desiderosa di superare il primitivismo asiatico» ma con peculiarità che non la rendono pienamente assimilabile alla cultura europea. La Russia è la vera erede di Bisanzio e, dunque, per certi versi la “Terza Roma” capace di rappresentare alcuni valori autentici della cristianità. «Il misticismo è il primo momento del pensiero» di questo sconfinato Paese che a una prima osservazione può apparire primordiale, quasi ruvido come le sue steppe, ma capace poi di grandi slanci romantici come quelli di Puškin, Lermontov e Griboedov.
Per capire la Russia a fondo, bisogna penetrare le profondità della sua grande letteratura ed è questa l’operazione che tenta Gobetti. Una letteratura che si lega inscindibilmente alla tradizione e alla forza della terra, «abbiate fede nell’anima del popolo e da essa soltanto aspettate salvezza e sarete salvi», ripete Puškin. Gobetti esamina accuratamente tutti i grandi autori, a cominciare da Dostoevskij, poi Gogol, ?ecov, Cuprin fino a Trockij. Il filo che li lega è profondo ed è dato dal popolarismo in contrapposizione all’intellettualismo.
Le anime morte di Gogol è il grande affresco della Russia scritto sul modello dantesco dove emerge l’orgoglio del popolo russo. «Il poema ha schietti toni manzoniani», osserva Gobetti, «manzoniano è l’esempio di un’arte riflessa, ragionata, cauta, sostenuta da una inestinguibile luce poetica». Risulta geniale il pretesto lirico della storia di Cicicov che vuole far fortuna comprando servi della gleba morti dopo l’ultimo censimento e dandoli in garanzia a una banca come vivi.
Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij, nella prospettiva gobettiana, ben riassumono la posizione filosofica e culturale dello scrittore russo di un antintellettualismo che guarda al volontarismo della vita, in nome della vita nazionale e di una reale civiltà.
Quello che risulta, però, più originale di questo lungo viaggio nello spirito russo, è la tesi di Gobetti sulla Rivoluzione bolscevica. Le vicende del 1917 già negli anni successivi suscitarono nel mondo grandi passioni come grandi avversioni. Il paradosso sostenuto da Gobetti è che, comunque, Lenin e Trockij abbiano suscitato forze positive di un «liberalismo sostanziale», tenuto conto delle premesse storiche della Russia. «Trockij afferma, per primo, una visione liberale della storia», scrive l’intellettuale torinese, il che induce ad apprezzare una complessiva «moralità» della Rivoluzione. Tesi suggestiva e che aiuta a riflettere sul presente. Chi oggi pensa che Mosca non sia una piena democrazia all’Occidentale, forse, dovrebbe fare i conti con il realismo della storia che non ammette accelerazioni e invita al rispetto.
Piero Gobetti, Paradosso dello spirito russ o , Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, pagg. 260, € 18
Repubblica 30.10.16
Ritorno a Wittenberg
Domani papa Francesco ricorderà la Riforma protestante. Noi siamo andati dove tutto iniziò
La cittadina tedesca si prepara ad accogliere i pellegrini. Ma pensando più al business che a Dio
di Tonia Mastrobuoni
WITTENBERG AUTUNNO 1989. Nel cortile dell’officina del pittore rinascimentale Lucas Cranach, un pugno di manifestanti rischia il carcere. Il Muro, a Berlino, ha già iniziato a sgretolarsi, e l’aria del nord sta agitando anche Wittenberg, la città di Lutero. Ma la Stasi è ancora onnipresente, e il terrore stringe i manifestanti alla gola. Appendono sui muri scrostati dall’umidità uno striscione che esprime il loro grido di dolore: “Chi lascia
marcire le case, lascia marcire gli uomini”.
Sotto quei tetti bucati, tra quei muri mangiati dalla muffa, in mezzo alla polvere e ai mattoni sparsi a terra, è nato un pezzo di modernità. Cinquecento anni prima, in quella casa che sembra ormai un rudere, Cranach ha dipinto con i suoi figli alcuni capolavori del secolo. E al pianoterra, nelle sue officine, è stata stampata la prima Bibbia tradotta in tedesco da Martin Lutero. Quel 7 novembre del 1989, il gruppetto di indignati protesta contro la Germania comunista, colpevole di aver disprezzato quei luoghi, di averli ridotti in rovina. Ormai la città di Wittenberg, un luogo dello spirito per milioni di persone, è un buco in provincia, è una grigia striscia di case in cui nessuno dei luoghi deputati della Riforma protestante sembra destinato a sopravvivere.
Due giorni dopo, cade il Muro. L’evoluzione successiva ha consentito di recuperare quei posti — oggi la città è patrimonio dell’Unesco — di ricostruire mattone dopo mattone la storia di un piccolo villaggio della Sassonia che cinquecento anni fa divise il cristianesimo regalando ai tedeschi la loro lingua e un pezzo importante della loro cultura. Come scrisse Thomas Mann in un’introduzione al Faust goethiano: per capire Hitler bisogna capire Lutero. L’insanabile contrasto tra la libertà interiore che il Riformatore regalò ai tedeschi quando tradusse la Bibbia nella loro lingua e la libertà esteriore che gli negò quando ordinò ai principi di soffocare la rivolta dei contadini nel sangue, è anche l’eterno dilemma tedesco.
Ma anche con i cantieri e le gru, gli architetti, i sindaci democratici, le strette di mano e i giornali indipendenti, la sostanza non è cambiata. Anche l’arrivo dell’occidente capitalista non ha ripescato l’anima di Wittenberg. «I comunisti ci hanno fatto dimenticare chi eravamo, ma neanche dopo ce ne siamo più ricordati»: Hannah scuote la testa. Ha ottantatré anni, lo sguardo fiero e i capelli un po’ lilla delle tinte fatte in casa. Avanza lentamente col suo girello verso il centro della città. Non è bastato dipingere di colori pastello la fila di case lungo la Collegienstrasse, la via che collega la dimora di Lutero alla Schlosskirche, dove il monaco affisse nel 1517 le novantacinque tesi con cui avviò la sua rivoluzione. Né è bastato prepararsi al cinquecentesimo anniversario riempiendo le vetrine di cappellini, magliette, portachiavi o boccali di birra con l’effigie della “volpe nel vigneto”, come lo definì la bolla papale che lo scomunicò nel 1521. «Dell’anniversario di Lutero mi importa molto perché sarà bellissimo e ci aspettiamo pellegrini da tutto il mondo», ci dice Joachim, proprietario di uno dei negozi che vende gadget con il volto austero del Riformatore. Ma della religione, ammette, «non mi importa nulla».
Johannes Bloch, parroco della Stadtkirche è un uomo dall’aria mite: «Wittenberg è il nostro Vaticano», spiega, ma a parte i gadget di Lutero, di spiritualità se ne coglie un po’ poca. I tempi in cui gli studenti di Lutero scendevano in piazza a difendere le sue tesi contro i suoi oppositori anche a suon di schiaffoni, in cui bruciavano gli scritti di Johannes Eck in piazza (all’epoca bruciare libri era prassi), in cui una comunità intera, dal principe elettore Federico il Savio all’ultimo degli artigiani, si stringeva attorno all’”eretico”, sono tramontati. Anche la caduta del muro di Berlino e la fine dell’ateismo di Stato non sono riusciti a recuperarla. Ma forse molti fedeli erano spariti prima, nei lunghi secoli in cui Wittenberg è ripiombata nell’oblìo dopo l’incredibile fiammata cinquecentesca in cui era diventata il centro del mondo.
Oggi la Sassonia-Anhalt, lo dicono i dati del censimento del 2011, è la regione più atea della Germania. Nel Land dove Lutero avviò la sua rivoluzione, neanche il quindici per cento degli abitanti è protestante. In particolare Wittenberg, la città dove il teologo agostiniano scrisse le sue opere principali, dove insegnò per decenni, la soprintendenza ecclesiastica ci ha informato che sono appena ottomila i protestanti, su cinquantamila abitanti. Il sedici per cento della popolazione. E la chiesa dove Lutero predicò per la prima volta in tedesco, la Stadtkirche, la chiesa di Bloch che vanta tuttora la comunità più ampia, conta appena tremilacinquecento fedeli.
All’interno della chiesa, quasi interamente ricostruita, la pala dell’altare sembra la perfetta rappresentazione della Sternstunde, l’ora stellare di Wittenberg, come l’avrebbe definita Stefan Zweig. È il famoso altare di Cranach, molto probabilmente dipinto dal figlio Lucas, e vi compaiono tutti i protagonisti di quella brevissima ma intensa stagione che coincise con il governo di Federico il Savio. Un allineamento fortunato di pianeti che produsse l’ora stellare della Riforma. Fu il principe elettore sassone a scegliere Wittenberg come residenza di corte, a chiamare Cranach padre come suo pittore, a costruire l’università Leucorea, ad ampliare la Schlosskirche dove furono affisse le novantacinque tesi di Lutero. In quegli anni fu chiamato a Wittenberg un enfant prodige di cui parlava già tutto il regno, un grecista prodigioso, il ventunenne Filippo Melantone, che fece parte della cerchia di Lutero e che ne soffrì talmente l’esilio sulla Wartburg, dove il Riformatore scappò dal bando papale per tradurre la Bibbia, da definirne la lontananza «insopportabile». Fu sempre Federico a favorire uno straordinario intreccio di relazioni che trasformarono quel piccolo villaggio di duemila anime — dove Lutero arrivò nel 1508 lamentandosi di essere stato mandato in termino civilitatis, alla “fine della civilità” mentre Melantone parlò di un “deserto” — in pochissimi anni nel centro del mondo. Oggi il periodo del Riformatore a Wittenberg può essere paragonato con quello di Goethe a Weimar. E Lutero non era un monaco solitario: padrino di Lucas Cranach, di cui fu a sua volta testimone di nozze, legatissimo a Melantone, in costante dialogo con il principe attraverso Spalatino (Lutero e Federico non si incontrarono mai), si costruì una fitta rete di intrecci in città che fu la base ideale per la Riforma. Con la morte del principe, si chiusero anche quegli straordinari decenni, quella Sternstunde. Al suo successore fu strappato il titolo di elettore e Wittenberg riprecipitò nell’oblìo.
In vista dell’anniversario delle novantacinque tesi, la città è ridiventata un cantiere. Poco dopo la stazione centrale che un piccolo esercito di operai sta ampliando, sulla strada che porta alla casa di Lutero, ci si imbatte in un gigantesco cilindro rosso che vuol essere il benvenuto ai pellegrini e ai turisti. All’interno, l’artista iraniano Yadegar Asisi ha ricostruito la città cinquecentesca a trecentosessanta gradi, in un gigantesco panorama che rappresenta le scene salienti della vita di Lutero. Qualche metro più in là, la casa del monaco. Purtroppo sarà chiusa per restauri fino a marzo del 2017, nel bel mezzo dell’anniversario. Forse ci si poteva muovere un po’ prima del quattrocentonovantanovesimo anno e mezzo per cominciare i lavori.
Una delle iniziative di cui gli organizzatori del “Lutherjahr”, l’anno di Lutero, vanno più fieri è il trucktour. Una ventina di volontari giovanissimi faranno un giro dell’Europa in sessantotto tappe con un camion speciale per raccogliere storie sulla Riforma. Il camion, dipinto di blu come i colori dell’Europa, si apre di lato e diventa un piccolo palcoscenico per discussioni pubbliche, per la raccolta delle storie o per informarsi sul Riformatore. Christof Vetter, direttore marketing delle celebrazioni dell’anniversario, spiega che il truck si fermerà anche a Roma. Incontrerete il Papa?, chiediamo. «No, ma una comunità cattolica e una protestante». Spontaneo domandare se il Papa è stato invitato a Wittenberg. Pausa. Vetter fissa un punto imprecisato sul tetto del camion. «L’anno prossimo», scandisce lentamente, «tutti i cristiani saranno i benvenuti, qui a Wittenberg». Anche il Papa? «Persino il Papa».
Repubblica 30.10.16
Fuga da Roma
diAgostino Paravicini Bagliani
L’AUTORE
Agostino Paravicini Bagliani è uno storico italiano specializzato in storia medievale e storia del Papato
Dal 2002 è direttore della “Rivista di Storia della Chiesa in Italia”
IL VIAGGIO DI PAPA FRANCESCO in Svezia coincide con il cinquecentesimo anniversario del 31 ottobre 1517 che la memoria collettiva ricorda come data di inizio della Riforma. Secondo una tradizione la cui storicità non è accertata, Martin Lutero avrebbe quel giorno fatto affiggere 95 tesi teologiche sulla porta della chiesa di Wittenberg, piccola città della Sassonia. Inviò le tesi con una lettera all’arcivescovo di Magonza. Quasi la metà sostengono argomenti polemici contro le indulgenze, che non assicurano la salvezza, perché
solo Dio può perdonare il peccatore pentito.
Lutero sferrò quindi un attacco frontale contro uno dei principali sostegni del sistema finanziario della Chiesa di allora, delegittimando nello stesso tempo la funzione di mediazione spirituale e sacramentale del papato. Ed è per questo duplice motivo che le “tesi di Wittenberg” ebbero uno straordinario successo. Non a caso, Silvestro Mazzolini da Prieiro, maestro del sacro palazzo vaticano, il cui compito era analogo a quello che svolge oggi il prefetto della Congregazione per la dottrina della Chiesa (l’ex Sant’Uffizio), polemizzò con Lutero pubblicando a Roma, già nel 1518, un Dialogo contro le conclusioni presuntuose di Lutero intorno al potere papale.
Ad Augsburg, ai margini della Dieta imperiale (ottobre 1518), Lutero ebbe un incontro con un altro ben più celebre domenicano, il cardinale legato Tommaso De Vio, il quale chiese a Lutero di ritrattare. L’agostiniano preferì però appellarsi direttamente a Leone X, perché, disse, «è stato male informato». Lutero non ruppe allora con Roma, ma discusse sempre più apertamente la legittimità dell’autorità papale. A Lipsia, durante una disputa (giugno-luglio 1519), dichiarò che la Chiesa non ha bisogno di un capo terreno, perché Cristo è il suo capo e la roccia sulla quale si fonda la fede è Cristo e non il successore di Pietro.
Roma reagì allora ufficialmente. Il 15 giugno 1520 Leone X autorizzò l’apertura di un processo contro Lutero che fu chiamato nuovamente a ritrattare, non tutte, bensì quarantuno tesi di Wittenberg entro sessanta giorni, pena la scomunica. Le tesi condannate erano soprattutto quelle che mettevano in discussione i sacramenti e la mediazione spirituale del papato. Furono lasciate fuori tesi ripetitive o che non toccavano temi così fondamentali. Lutero non si recò a Roma per il processo, preferendo rimanere sotto la protezione del principe di Sassonia. Al Papa inviò il Trattato della libertà cristiana con una lunga lettera dedicatoria in cui espose la sua visione della Chiesa. Al Papa, Lutero riservò parole di rispetto e di elogio: «Il tuo buon nome e la fama della tua vita irreprensibile... non possono essere attaccati da nessuno». Feroce fu invece la polemica nei confronti della curia: il Papa «non può negare sia più corrotta di qualunque Babilonia o Sodoma» e «Satana in persona... regna... su questa Babilonia».
Due mesi dopo (10 dicembre) Lutero diede pubblicamente fuoco alla bolla papale. Il 3 gennaio 1521 Leone X scomunicò l’agostiniano e alla Dieta imperiale di Worms (26 aprile) Carlo V fece mettere il frate al bando dell’Impero, una decisione che contribuì a politicizzare lo scontro tra Lutero e la Chiesa. Con straordinaria rapidità le idee di Lutero si stavano diffondendo nelle città libere dell’Impero, da Norimberga a Strasburgo, o a Zurigo, dove il teologo svizzero Ulrich Zwingli organizzò già nel 1523 una disputa per discutere settantasette tesi secondo cui la fede è suscitata nell’uomo direttamente dallo Spirito. Spettacolare, il successo della traduzione di Lutero della Bibbia — nel 1522 il Nuovo Testamento fu pubblicato in tremila esemplari — non si spiega soltanto perché fu un capolavoro sul piano linguistico. Per Lutero — e per la Riforma in generale — la Bibbia è l’unica fonte della Rivelazione, il che elimina la necessità di una mediazione dottrinale della Chiesa. In pochi anni, le differenze con i cattolici si erano dunque acuite: se per Lutero soltanto Cristo è il capo della Chiesa, e non il Papa, la sola autorità che conta non deriva dall’autorità della Chiesa ma dalla Parola di Dio che ogni fedele riceve dalla lettura della Bibbia. Fu con questi argomenti che, fin dagli anni 1517-1522, si venne a costruire il profondo diverbio tra cattolicesimo e luteranesimo che si affermò a macchia d’olio in gran parte dell’Europa. Contro il papato di Roma, fondato dal demonio è il titolo di una delle sue ultime opere, scritta un anno prima della sua morte (1545).
La Riforma si affermò anche per motivi politici. Numerosi Stati territoriali tedeschi, dalla Pomerania alla Sassia, potevano così manifestare la loro indipendenza verso l’imperatore. In Danimarca, la Riforma prese piede grazie all’appoggio del re Federico I, e da qui in Norvegia e in Islanda, paesi allora sottomessi alla corona danese. In Svezia, Gustavo I Vasa fece decretare la libera circolazione del Vangelo (1527). A Basilea, Calvino pubblicò la Istituzione della religione cristiana proprio nell’anno in cui (1536) impose la Riforma a Ginevra, che diventò una «Roma protestante». Già nel 1530 il re d’Inghilterra Enrico VIII fece accettare dal Parlamento il titolo di capo supremo della Chiesa di Inghilterra, e quando l’unione segreta del re con Anna Bolena fu resa pubblica, papa Clemente VII lo minacciò di scomunica. Il re rispose facendo votare dal Parlamento l’Atto di Supremazia (1534). Nel 1538 Paolo III scomunicò il re sciogliendo i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà. Sotto Maria Tudor alcuni credettero che l’Inghilterra sarebbe tornata alla fedeltà verso Roma, ma il lungo regno di Elisabetta I d’Inghilterra (1558-1603) consolidò definitivamente la riforma anglicana.
Insomma, nel corso di pochi decenni l’Europa cristiana si divise profondamente, con regioni dominate dalla Riforma, irrimediabilmente separate da Roma, dove si continuò però a sperare di poter ristabilire l’unità della Chiesa. Convocato dapprima nel 1536 e poi nel 1545, il concilio di Trento si concentrò sui problemi teologici posti da Lutero. Sotto Giulio III una delegazione di protestanti tedeschi partecipò (1551-1552) al concilio ma senza risultati. Dopo una lunga pausa — per Paolo IV il compito di riformare la Chiesa spettava alla Sede apostolica — il Concilio riprese sotto Pio IV e si concluse nel 1563.
Proprio allora (1562) la Francia iniziò a essere dilaniata da una serie di guerre di religione. L’evento più tragico avvenne nella notte tra il 23 e il 24 agosto 1572, festa di san Bartolomeo. Numerosi protestanti erano venuti a Parigi per assistere, il 18 agosto, al matrimonio tra Margherita di Valois (la regina Margot) e il futuro re di Francia Enrico IV, una «unione esecranda» secondo l’espressione del generale dei Gesuiti. Il massacro di san Bartolomeo — così è passato alla storia — fu una strage. Si calcola che furono allora uccisi cinquemila ugonotti.
Con l’editto di Nantes (30 aprile 1598) Enrico IV porrà fine alle sanguinose guerre di religione riconoscendo ai protestanti la libertà di culto nei territori dove erano già insediati, tranne che a Parigi e in alcune città. Due decenni dopo, tra il 1618 e il 1648, fu l’Europa centrale a essere attraversata da uno dei più sanguinosi conflitti della storia europea, la Guerra dei trent’anni. Mezzo secolo dopo, con la revoca dell’editto di Nantes da parte di Luigi XIV (18 ottobre 1685), ripresero in Francia le persecuzioni contro i protestanti. Ventimila ugonotti fuggirono verso l’Inghilterra, la Virginia e la Carolina del Sud, la Germania, la Svizzera e i Paesi Bassi. Anche nello Stato sabaudo i valdesi furono cacciati dalle loro valli. Più di duemila persone trovarono rifugio nella Ginevra protestante, e altri nella Germania luterana.
Sono episodi tragici che fanno parte della nostra memoria collettiva, a ricordo — ora che si celebra il cinquecentesimo anniversario dell’inizio della Riforma protestante — di quei lunghi decenni di storia dell’Europa moderna, in cui incomprensioni e polemiche, stragi e massacri, migrazioni e esodi erano all’ordine del giorno, per ragioni profondamente religiose oltre che politiche.
Il Sole Domenica 30.10.16
Anniversari storici (1517 - 2017)
Annus lutheranus
L’incontro di papa Francesco con il vescovo (donna) primate di Svezia apre le celebrazioni della riforma di Lutero
di Gianfranco Ravasi
Domani papa Francesco varcherà la soglia della chiesa più antica e importante di Svezia, la Domkyrkan della città di Lund, sede della prestigiosa università verso la quale era diretto il vecchio professor Isaac Borg per ricevere il premio a suggello della sua carriera, come ricordano tutti coloro che hanno visto e amato Il posto delle fragole, lo stupendo film che Bergman girò nel 1957. All’interno di quel capolavoro dell’architettura romanica nordica – che i turisti ammirano soprattutto per il trecentesco orologio astronomico della facciata con la sua sfilata di Magi a ogni battere d’ora – ad accogliere il papa sarà l’arcivescovo di Uppsala, primate luterano di Svezia, che attualmente è una donna, Antje Jackelén. Precedentemente questa teologa occupò proprio la sede episcopale di Lund ove era anche docente presso la già citata università: io stesso ho avuto occasione di incontrarla varie volte e di svolgere con lei un importante dialogo nell’Accademia delle Scienze di Stoccolma.
Come è noto, la data scelta per questo atto ecumenico è legata a quel mercoledì 31 ottobre 1517 quando Martin Lutero affisse (secondo una tradizione non strettamente documentata) le celebri 95 tesi alle porte della chiesa del castello di Wittenberg, cittadina sull’Elba in Sassonia, ideale manifesto del protestantesimo. In realtà, come dice il titolo dell’editio princeps, quelle asserzioni ruotavano attorno alla questione dibattuta delle indulgenze, Disputatio pro declaratione virtutis indulgentiarum, ma già vi si intravedevano i germi della futura Riforma. Col gesto ecumenico di papa Francesco si apre l’anno dedicato a Lutero e alla sua opera, ma si manifesta in modo incisivo la distanza che intercorre rispetto alla tensione e alla divisione che imperavano cinquecento anni fa e nel prosieguo dei secoli successivi.
Naturalmente avremo occasione di rievocare ancora questo centenario che domani ha il suo avvio. Ci accontentiamo ora solo di qualche segnalazione bibliografica recente, per certi versi marginale. Una particolare sottolineatura merita subito il breve saggio di un cardinale tedesco noto teologo, Walter Kasper, che fu per più di un decennio a capo del dicastero vaticano per la promozione dell’unità dei cristiani. Il suo è un ritratto di Lutero in “prospettiva ecumenica”, posto all’insegna del dialogo: infatti, «abbiamo bisogno di un ecumenismo accogliente, in grado di imparare gli uni dagli altri» e non di esorcizzarci a vicenda, frapponendo subito il muro delle differenze dottrinali ed ecclesiali che pure devono essere riconosciute.
Proprio per questo è necessaria un’opera di contestualizzazione perché Lutero è intimamente intrecciato nei fili aggrovigliati di un’epoca storica ove religione e politica si arruffavano e si azzuffavano, un grembo oscuro ma fecondo dal quale sarebbe nata la modernità. Il grande riformatore, perciò, si rivela certamente rivestito degli abiti consunti di un passato ormai remoto, ma al tempo stesso svela un’attualità intima profonda, anche perché egli «con inaudita energia pone al centro la più centrale di tutte le questioni, la questione su Dio» e, di conseguenza, «la questione teologica decisiva del rapporto tra teonomia e autonomia». Il suo impulso primario non era quello di fondare una Chiesa separata ma di rinnovare la cristianità, riportandola alla sua matrice, cioè la gloria e la grazia di Dio e la fede dell’uomo.
Come scrive Kasper, al di là della vis polemica, di cui pure non difettava, e delle derive a cui fu costretto dal contesto socio-politico e dall’infausta e dura reazione cattolica, «il vangelo per Lutero ... era un messaggio vivo che interpella esistenzialmente la persona, un incoraggiamento e una promessa pro me et pro nobis. Era il messaggio della croce, il solo che dona pace». Per cogliere questa temperie spirituale radicale di un uomo dal fascino magnetico, che talora era persino rozzo e brutale ma che sapeva essere anche mistico e delicato, può essere utile – all’interno dell’immensa sua produzione teologica – ritagliare alcune sue preghiere. È ciò che hanno fatto un teologo valdese, Fulvio Ferrario, e una funzionaria consolare, Berta Ravasi, con una suggestiva selezione di invocazioni che coprono l’arco intero dei momenti spirituali e liturgici della giornata dall’alba alla sera, della contemplazione e della tentazione, del peccato e del perdono, del matrimonio e della famiglia, della vita ecclesiale e di quella civile, per approdare all’ultima ora, quando la morte, spesso evocata, verrà abbracciata perché essa conduce all’incontro con l’amato Signore e alla sua pace infinita.
Certo, la Riforma protestante va oltre il suo primo artefice e si rivela più complessa e non sempre facilmente accessibile. Un docente di storia di un’università americana, Glenn S. Sunshine, propone allora un profilo un po’ “impressionistico” della Riforma «per chi non ha tempo», puntando soprattutto su quella traiettoria storica dalle mille ramificazioni che giunge alla pace di Vestfalia quando, il 24 ottobre 1648, tutte le potenze europee coinvolte nell’aspra guerra politico-religiosa dei Trent’anni giunsero a un accordo, facendo calare il sipario sul Sacro Romano Impero. Il percorso, necessariamente semplificato, accompagnato dalle vignette un po’ grossolane di Ron Hill, è delineato da un’angolatura protestante ma sostanzialmente equilibrata e lineare e si allarga a tutto l’orizzonte europeo comprendendo perciò lo scisma di Enrico VIII, le scelte radicali di Zwingli, l’opera di Calvino e anche quella Svezia da cui siamo partiti (nella imponente cripta della cattedrale di Lund, sorretta da 28 colonne, riposa l’ultimo arcivescovo cattolico, Birger, morto nel 1519 e artefice del restauro di quel tempio), mentre un’appendice di Carlo Papini si interessa anche del protestantesimo italiano.
Un protestantesimo minoritario costretto a confrontarsi, spesso aspramente, con la prevalente cattolicità. Senza voler entrare in questo territorio accidentato, vorremmo proporre solo un curioso documento recentemente pubblicato dal Comitato Edizioni Gobettiane. Si tratta di un breve saggio sulla Rivoluzione protestante (e il titolo è significativo) di un amico di Gobetti, il noto pensatore antifascista sostenitore di un liberalismo progressista: è il calabrese Giuseppe Gangale (1898-1978), prima cattolico, poi ateo, successivamente massone e infine convertito al protestantesimo, con un forte impegno intellettuale e sociale e un’esperienza di esilio in paesi protestanti.
Ebbene, la sua analisi lo conduce ad assumere, tra l’altro, una delle componenti della visione protestante, il richiamo alla coscienza individuale, per abbozzare una “rivoluzione” da far serpeggiare nel terreno sociale italiano, contaminato da quella sorta di zizzania che era ai suoi occhi il cattolicesimo, definito senza esitazione «il male d’Italia». Si propone, così, come osserva uno dei nostri maggiori teologi protestanti, Paolo Ricca, nella sua puntuale postfazione critica, una religione (e una concezione civile) in cui «l’uomo è sacerdote a se stesso e l’autorità non è più esteriore ma interiore, fondata sulla coscienza autonoma e non più eteronoma». Da queste pagine si riesce a intuire per contrasto quanto sia complesso ma necessario un serio dialogo in tutte le sue forme, per evitare fraintendimenti e stereotipi, semplificazioni ed equivoci, ma scoprire anche coincidenze e valori comuni.
Il Sole Domenica 30.10.16
Ateismo
Che «tipi» sono gli atei
di Giovanni Santambrogio
La parola ateismo suona oggi strana e soprattutto lontana, cancellata dal linguaggio comune. Appare come ricordo di un tempo, quando accendeva confronti ideologici o quando impersonava, in una società ad alto tasso di religiosità, un uomo e una donna “senza Dio”. L’indifferenza ha preso il suo posto. La secolarizzazione ha rimosso il problema dando corso e dignità al nichilismo: anche il «Dio è morto» di Nietzsche è diventato un «Dio superfluo». Se questa può essere la fotografia generica scattata sulla folla, differenti risultano i fotogrammi degli ingrandimenti delle singole e variegate condizioni esistenziali dove l’esperienza della frammentazione assume i volti più diversi dall’insoddisfazione al disagio, al dramma e dove si leva il grido della mancanza. Ricordando il pittore Francis Bacon o il filosofo Emil Cioran il presente sarebbe una continua “decomposizione”. Proprio questa situazione potrebbe costituire - e sta già producendo - una nuova riflessione su Dio, dove la domanda non si concentra più sulle prove razionali della sua esistenza (dispute medievali e moderne) o della sua inesistenza (ateismo libertino, materialismo marxista, esistenzialismo sartriano, neodarwinismo contemporaneo); neppure sull’ateismo genealogico che ha in Nietzsche il capostipite (Dio da necessario si è trasformato in impossibile, perché è morto). La domanda si concentra sull’Inizio e sull’Origine con la conseguente legittimità di indagare aprendosi alla meraviglia dell’essere.
Si parla di “ateismo trascendentale” che, superando la storia passata della contrapposizione tra il Dio dei filosofi e il Dio biblico, prende in considerazione il tema del fondamento e dell’evento. E da qui può anche partire una interlocuzione con il Cristianesimo. Questi interrogativi, con i loro presupposti teoretici e la ricchezza del dibattito che ha accompagnato filosofia, teologia e scienza delle religioni, si trovano in un breve ma puntuale saggio di Ilario Bertoletti, curatore di traduzioni di Ricoeur, Levinas, Adorno. Idealtipi dell’ateismo rilegge le riflessioni storiche su Dio identificando tre momenti: ateismo classico, genealogico, trascendentale. Un'ipotesi di ricerca potrebbe dare risposta alla condizione umana contemporanea: se «nulla è ovvio, tutto è enigma, tutto è mistero», ritorna la domanda sull’essere dentro quel vuoto e quel niente teorizzati dal nichilismo. Proprio l’assenza di Dio diventa leva della sua presenza: è il volto dell'altro di Levinas, è l’apertura all’imprevisto quotidiano che conduce alla Croce. Si esplicita un paradosso: la morte di Dio diventa «una transizione dal Dio al Cristo». Per Bertoletti è in corso di costruzione un nuovo paradigma nella filosofia e nella teologia.
Ilario Bertoletti, Idealtipi dell’ateismo , Edizioni ETS, Pisa, pagg. 60, € 10
Repubblica Cult 30.10.16
Ma davvero la sinistra non sorride mai?
di Simonetta Fiori
La sinistra è condannata alla cupezza del rimpianto? Solo a leggere il titolo del saggio annunciato da Feltrinelli — Malinconia di sinistra — viene da sussultare. Oddio, ci risiamo. Ci risiamo con il luogo comune dei musi lunghi, moralisti e rompiballe, filone editorialmente fortunato che ha alimentato tanta pubblicistica e anche qualche romanzo di successo. E invece no, questa volta si tratta di un lavoro di origine accademica, nato da un seminario alla Cornell University e destinato a uscire contemporaneamente in edizione italiana e presso la Columbia University Press. La tesi di Enzo Traverso, studioso dei totalitarismi e della violenza nazista, è che l’eclissi delle utopie abbia lasciato sempre più spazio alla malinconia, una sorta di struggimento per le sconfitte subite, di memoria dolente per le occasioni perdute, di infinita tristezza per i vinti nella storia. Ma questo stato d’animo — sostiene Traverso — è parte della storia della sinistra: se prima veniva occultato dall’assalto al cielo, ora in assenza di una prospettiva futura è destinato a occupare tutta la scena. Non l’ha provocato in sostanza la svolta storica dell’Ottantanove, ma soltanto rivelato, trattandosi di una tradizione “nascosta” e “rimossa” che il saggio di Traverso vuole portare alla luce attraverso testimonianze eterogenee, le parole di Marx e Benjamin, il cinema di Theo Angelopulos e Ken Loach, i murales di Diego Rivera, i capolavori di Courbet e Rodin. Per approdare a cosa? No, non a un deprimente piagnisteo che potrebbe spegnere qualsiasi speranza di cambiamento, al contrario a una nuova militanza più consapevole. Sin qui la suggestiva tesi di Traverso, che non mancherà di far discutere. Sinistra è solo quella rivoluzionaria? E mai un sorriso, mai una conquista, in un secolo e mezzo di mestizia sublimata? Il responso solo dopo aver letto le 240 pagine dello studioso, illustrate da una cinquantina di tavole. Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta (traduzione di Carlo Salzani), in libreria a fine novembre.
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A proposito di luoghi comuni — o pregiudizi — chi di noi ne è totalmente sprovvisto? A ciascuno il suo, parrebbe dire l’editore Laterza che ha preparato (con l’intento di smontarli) un catalogo di pregiudizi d’autore. Non sempre ispirati dal malanimo: il pregiudizio può essere anche positivo, enfatizzare una qualità o un’attitudine ma — se infondato — pregiudizio resta. E non è detto che sia antico e consolidato: i luoghi comuni fioriscono ogni anno come le mimose. Il volume laterziano ne raccoglie un’ottantina, affidati alle mani sapienti di altrettanti demolitori: da Ignazio Visco a Carlo Petrini, da Anna Foa a Eva Cantarella, da Giulio Giorello a Elio De Capitani. Qualche esempio? «Gli ebrei sono intelligenti». «I gesuiti sono ipocriti». «Gli omossessuali sono sensibili». «I giovani non leggono». «La rete non ha padroni». «I giornali non contano più nulla». «La mafia è invincibile». «La letteratura italiana è morta». «Leggere libri ci rende migliori». A chi non è scappata una di queste frasi fatte? Riconoscerle può rivelarsi molto istruttivo.
Il pregiudizio universale, introduzione (e titolo) di Giuseppe Antonelli, il 17 novembre in libreria.
Repubblica 30.10.16
La mappa dei conflitti
Una mappa dei conflitti sociali e politici in Europa per individuarli prima ancora che esplodano
di Jaime D’Alessandro
UNA MAPPA dei conflitti sociali e politici in Europa per individuarli prima ancora che esplodano. Milioni di messaggi su social network, tweet e articoli di giornale analizzati in diretta in tutte le lingue dell’Unione europea usando algoritmi, applicando la teoria dei giochi e modelli per la lettura delle polarizzazioni e dei fronti contrapposti.
L’obiettivo di Odycceus, acronimo di Opinion Dynamics and Cultural Conflict in European Space, per usare un eufemismo è piuttosto ambizioso. Tracciare gli scontri verbali che si verificano in Rete e isolare quelli che potrebbero detonare su scala ben più ampia non è cosa semplice. Lo scetticismo è dunque la base di partenza. Ciò premesso, dietro il progetto ci sono ben otto istituti di ricerca e università (dalla Ca’ Foscari di Venezia al tedesco Max Planck di Lipsia, fino alla Chalmers University di Göteborg in Svezia) che hanno appena ricevuto poco meno di sei milioni di euro dall’Unione europea nell’ambito dei finanziamenti a Horizon 2020, il più importante programma per la ricerca e l’innovazione per il quale sono stati stanziati ottanta milioni di euro.
«Il progetto è nato i primi di dicembre del 2015», racconta Massimo Warglien, coordinatore del team della Ca’ Foscari. «Eravamo a Bruxelles con Eckehard Olbrich del Max Planck di Lipsia e con Kristian Lindberg della Chalmers di Göteborg. Avevamo appena consegnato un progetto alla Ue al quale avevamo lavorato assieme. La capitale belga era appena uscita dal coprifuoco che aveva seguito la strage del Bataclan a Parigi. La sera Bruxelles era spettrale. Nessuno in strada, se non qualche ubriacone o sbandato. Un clima terribile, straziante. Ci chiedemmo come continuare la nostra collaborazione e ci sembrò naturale pensare a un progetto sulle gravi polarizzazioni culturali e sociali che stanno dilaniando l’Europa. La possibilità di far leva sull’enorme massa di materiale testuale offerta quotidianamente dal web e dai social network ci portò a formulare l’idea di un sistema in grado di decifrare i conflitti che vengono espressi attraverso il linguaggio. Così è cominciato tutto».
Il bello è che Odycceus potrà essere consultabile da tutti attraverso una piattaforma modulare e open source chiamata Penelope, che su una mappa geografica farà vedere come e dove si sta parlando di un certo tema che genera polarizzazione. Immaginate per esempio di immettere una parola semplice, generica, come “immigrazione”. O ancora “Brexit”, “Isis”, “ebraismo”, “Unione europea”, “religione”, “Islam”, “elezioni presidenziali” e via discorrendo fino a scendere ad argomenti ben più circoscritti e legati a eventi precisi come può essere il G7. E non solo parole ma anche frasi intere, concetti, teorie. Dall’attualità alle contrapposizioni che genera un incontro fra capi di Stato, un fatto di cronaca. Del presente come del passato. «Certo, per esempio sarà possibile ricostruire la storia dell’antisemitismo in Francia», prosegue Warglien. «Analizzando i testi digitalizzati dalla Biblioteca Nazionale di Parigi che in contrapposi- zione al progetto di Google Books ha trasferito online milioni di volumi, si potrà capire come, quando e dove è nato ricostruendone il percorso. Mille rivoli diversi che hanno finito per formare un fiume in piena, dall’affaire Dreyfus in avanti». E più casi verranno analizzati, più il sistema riuscirà a prevedere cosa potrebbe accadere in futuro.
Di fatto i ricercatori della Ca’ Foscari e delle altre università metteranno in contatto due dei grandi fenomeni di questi tempi: le trasformazioni sociali da un lato, che hanno una portata sempre più vasta, e le tecnologie sempre più capaci di comprendere il senso della parola scritta o parlata dall’altro. L’analisi del linguaggio è uno dei principali campi di applicazione dell’intelligenza artificiale e dei suoi vari componenti, dagli algoritmi all’apprendimento delle macchine che permette al computer di imparare via via che esamina le informazioni. Le applicazioni sono in ambiti sempre più vasti: per esempio l’analisi delle cartelle mediche (entro qualche settimana in Germania al Rhon Klinikum Hospitals); trovare i passi salienti nell’enorme mole di documenti sottoposti alla Corte europea per i diritti umani (è successo alla University College di Londra); offrire la possibilità di controllare quel che di vero c’è nelle affermazioni di Hillary Clinton e Donald Trump attraverso l’altoparlante intelligente Echo di Amazon e il suo assistente virtuale Alexa.
Penelope e la sua rete avranno uno sviluppo graduale. Sarà disponibile in una prima fase per associazioni che studiano i conflitti politici o lavorano sul territorio. Poi nel giro di tre anni verrà aperta al pubblico. Non sono nemmeno esclusi utilizzi commerciali, anche se non saranno le università coinvolte a crearli. Ma in questi atenei già immaginano una serie di servizi realizzati da startup su misura partendo proprio da Penelope e riuscendo a dare informazioni in tempo reale sui rischi geopolitici di una certa area a chi vuol fare un investimento infrastrutturale in quella zona. «Già oggi ci sono molti strumenti dell’analisi dei testi», conclude Warglien. «La parte semantica è quella più complicata, lo sviluppo di tecnologie capaci di individuare la struttura dei concetti per riconoscerli come tali e capire quando e se c’è contrapposizione». Ma lui e i suoi colleghi non sono i soli su questa strada. Su questo terreno stanno lavorando tutti, da Facebook a Google, fino alla Microsoft. Anche in Inghilterra si sta investendo molto nell’analisi dei testi per avere il polso dei sentimenti sui vari mercati e il relativo fattore di rischio. A cominciare dalla Banca d’Inghilterra, prima istituzione del genere a farlo. E non è esattamente un peso piuma.
Repubblica Cult 30.10.16
Il ritorno del Padre
Era dato in fuga, evaporato, eterno Peter Pan Adesso da DeLillo a “Captain Fantastic” fino agli ultimi romanzi italiani si scopre che non è così
“Cosa vi ho insegnato?” chiede un genitore ai suoi ragazzi. È la domanda che mancava nella letteratura di questi anni, tutta votata allegramente a raccontare uomini impauriti, incapaci di crescere e prendersi sul serio
di Paolo Di Paolo
«A un certo punto io e mio padre abbiamo cominciato a superare, non senza fatica, alcune tensioni che ci avevano tenuti lontani». Forse bastava questo: tornare a cercarsi, riaprire il dialogo. I figli ritrovano i padri dove sanno di poterli perdere, come su un burrone, in un luogo ostile a entrambi. Per mettersi alla prova? Sì, e per prendersi finalmente sul serio. Nel recente e celebrato Zero K di Don De-Lillo, è il trentenne Jeffrey a rompere il silenzio, ad avvicinarsi: vede le rughe di un uomo avanti negli anni, legge dentro alla sua solitudine. E, nello sforzo di comprenderlo, riesce quasi a perdonarlo: «Non mi sono girato dall’altra parte. Sentivo l’obbligo di guardarlo. Volevo essere in uno stato di contemplazione». Il padre è un magnate della finanza, «un uomo forgiato dai soldi» in cerca di una scappatoia dalla morte: la trova in una struttura che si occupa di crioconservazione. «Non ero soltanto suo figlio, io ero “il” figlio, il sopravvissuto, l’erede manifesto» dice Jeffrey — e la sua delusione si è già tradotta in un sentimento diverso. Ricostruisce un rapporto fatto di «ripidi pendii e brusche deviazioni di percorso». Si fa carico di una fragilità a lungo mascherata da forza. Ma nessun padre è un supereroe, nemmeno quando cerca la via dell’immortalità.
Quel Captain Fantastic a cui presta il volto Viggo Mortensen nel film di Matt Ross, fa i conti con il suo non essere davvero e fino in fondo “fantastic”, come forse credeva. Tanto vale allora mettersi in discussione, dire la verità il più possibile ai sei ragazzini che ti guardano come un dio: «Nessuno appare magicamente per salvarti alla fine». L’errore, la paura, il fallimento fanno parte dell’avventura. L’importante è non fuggire sempre dalla responsabilità: se non c’è bisogno di un sacrificio, c’è bisogno, molto più semplicemente, di un esempio. L’uomo adulto la smette di rimpiangere pateticamente il tempo della propria giovinezza, e fa i conti con il mondo che lascia. Non alza le spalle con il sospiro — o peggio, il ghigno — di chi è fuori dai giochi. Se può, si rimette in gioco. Captain Fantastic prova a prendersi cura di ciò che gli sopravvivrà. Basta questo.
«Cosa vi ho insegnato?» domanda bruscamente un padre ai ragazzini protagonisti di La terra dei figli (Coconino), la nuova storia a fumetti di Gipi ambientata in un mondo post-apocalittico. È la domanda che mancava nella letteratura italiana di questi anni, tutta votata allegramente a raccontare padri incapaci di crescere e di prendersi sul serio. O quantomeno, di riconoscere gli errori, i difetti, le mancanze, senza riderci su — e così sostenere lo sguardo dei figli, accettare finalmente il confronto.
«Adesso sono qui perché tu mi hai cercato, dice il padre». Non può essere solo un caso che due romanzi italiani appena usciti — Prima di perderti di Tommaso Giagni (Einaudi) e Il passaggio di Pietro Grossi (Feltrinelli) — siano giocati su un lungo silenzio che si interrompe. Gli autori, trentenni, tornano a fare domande ai padri — e i padri devono rispondere. I gesti, sulle prime, sembrano quelli di un duello; le parole quelle di un processo. Giagni mette in scena un incontro tra padre e figlio fuori tempo massimo: dopo avere disperso le ceneri del genitore morto suicida, lo vede apparire di nuovo, pronto a farsi interrogare. «Un padre resta per sempre un mistero, pensa Fausto», e così cerca di venirne a capo. Mentre lo sfida e lo giudica — le ombre, i fallimenti — impara a comprenderlo. «Fausto non aveva capito la lotta di suo padre per sentirsi un vincente almeno in potenza». È sintomatico che, a bordo di una barca nel mare di Groenlandia, nel libro di Grossi, il personaggio del figlio sospenda la lotta anche lui: «Non aveva più segreti», pensa Carlo di suo padre. Il giovane vorrebbe dire al vecchio che ha capito tutto, finalmente, «avevo visto contro cosa combatteva e quanto quella guerra dovesse essere dura». I romanzi di Giagni e Grossi convincono per l’asciuttezza, per un rigore che non lascia spazio, finalmente, all’ironia — quella che la generazione di mezzo (i padri, appunto) ha sparso a palate su tutto. Per nascondere l’ansia di fuga, i segni della sconfitta, per nascondere soprattutto una dannata paura.
Fa eccezione Marco Lodoli, classe 1956. Nel suo ultimo romanzo, Il fiume, racconta di un padre, Alessandro, che guarda suo figlio Damiano affogare; lo guarda, non si tuffa. «Tu sei mio padre e hai avuto paura, ecco quello che Damiano non dice, ma Alessandro lo sente dentro di sé». Lo sguardo del ragazzino, alla fine, è quello largo del perdono. Ma il padre non può rinviare in eterno la resa dei conti con sé stesso: «Io nel fiume non mi sono gettato». Gli argini di un fiume, un mondo selvaggio, un cantiere fermo, un paesaggio di ghiaccio, la stanza asettica di una clinica. Il canyon in cui pare sperduto uno sceriffo, stanco e sfatto, nel corto d’animazione — quasi un piccolo western — che Pixar ha fatto girare in Rete. Borrowed Time, “tempo in prestito”: un uomo adulto è braccato dal ricordo di suo padre, dai sensi di colpa, nello stesso luogo in cui l’orologio paterno ha smesso di battere — il ciglio di un burrone. I luoghi del confronto comportano un pericolo, sono isolati, estremi. Le otto montagne di cui parla Paolo Cognetti nel romanzo in uscita («Mio padre aveva il suo modo di andare in montagna» è l’incipit); il mondo di malavita raccontato da Alessandro Zaccuri nelle pagine di Lo spregio (Marsilio). La notte quasi da incubo, e da visione, che attraversa Nemo per liberarsi dell’ingombrante padre “novecentesco” (Le cento vite di Nemesio, e/o): «Non ho patito una mancanza, ma l’ho colmata».
Una staffetta che sembrava bloccata può forse riattivarsi. Più per merito di dei figli, a quanto pare, che dei padri spinti spalle al muro, costretti a lasciar cadere almeno la maschera sorridente, sorniona, ironica indossata troppo a lungo. E a invecchiare, se non con autorevolezza, almeno con un po’ di serietà.
Repubblica Cult 30.10.16
Massimo Recalcati
“I figli ora capiscono di aver bisogno di un testimone”
Non si può crescere senza la guida di una Legge che mostri che la vita ha un senso. Questo non ha a che fare con la paternità biologica ma con l’etica
intervista
«Ciò che irrompe nelle nuove narrazioni non è il padre, ma la mancanza del padre». Da tempo lo psicanalista Massimo Recalcati si interroga sulle conseguenze di quello che Jacques Lacan chiamava l’evaporazione del padre: la scomparsa della Legge, il tramonto dell’autorità. Per lui non si tratta di una eclissi temporanea, ma di un fatto ormai avvenuto, strutturale e insuperabile.
Chi è dunque il padre che torna al centro della scena letteraria e cinematografica?
«Di sicuro non è il padre-padrone, il padre-Dio, il padre-bussola che ha l’ultima parola sul senso della vita e guida in modo infallibile i propri figli. In Occidente questa figura si è esaurita dopo il trauma virtuoso del ’68. Solo i fondamentalisti cercano di recuperare quella immagine attraverso il Dio folle che comanda la morte dell’infedele riabilitando una rappresentazione padronale della paternità».
Cosa significa “evaporazione del padre”?
«È una espressione che Lacan usava per spiegare come le contestazioni giovanili del ‘68 avessero demolito l’autorità simbolica del padre nella vita della famiglia e in quella della società. La sua previsione era che il vuoto lasciato dal padre venisse colmato dal carattere feticistico delle merci, dall’oggetto di consumo. Era una previsione corretta».
Con quali conseguenze?
«La funzione del padre in psicoanalisi è quella di testimoniare che la vita umana è attraversata dal limite mentre per il discorso del capitalista tutto è possibile: acquistare, consumare, evitare la morte. In Italia lo sappiamo bene: il ventennio che ci siamo lasciati alle spalle ha visto la degenerazione dell’idea di paternità. Uomini afflitti dalla sindrome di Peter Pan, eterni ragazzi che diventano compagni di gioco dei figli, padri ridotti a pupazzi…».
Dobbiamo avere nostalgia della stagione precedente?
«No. Dobbiamo distinguere il ritorno nostalgico del padre-padrone, la cui espressione più drammatica sono i fondamentalismi di vario genere, dalla giusta esigenza che la vita ha di liberarsi dai padri. Ma il lutto del padre è complicato, non si può solo rifiutare il padre. L’odio verso i padri ostacola la vita dei figli, non libera affatto dalla sua ombra. Per liberarsi dal padre bisogna riconoscere il suo valore».
Nei libri e nei film sembra che i padri vengano convocati dai figli per un dialogo, una resa dei conti, un’alleanza. Che cosa si sta evocando?
«Quello che resta del padre nel tempo della sua evaporazione non è il padre-padrone e nemmeno il padre-perverso, ma il padre- testimone. I figli hanno bisogno di testimoni che dicano loro non qual è il senso dell’esistenza, bensì che mostrino attraverso la loro vita che l’esistenza può avere un senso. Un esempio è Papa Francesco: a differenza dei suoi predecessori non rappresenta il padre glorioso simbolo di Dio in terra o l’infallibilità della dottrina, ma è un padre che non teme la sua povertà».
Il concetto di paternità quanto ha a che fare con la biologia?
«Generare un figlio non è essere un padre, ma accogliere la responsabilità che la nascita di un figlio comporta. Nel dibattito pubblico questo concetto viene spesso dimenticato. Ricordo le polemiche che si sono scatenate dopo la scelta di Nichi Vendola e del suo compagno di diventare genitori. Ho dei dubbi sulla maternità surrogata. Ma da una parte c’era una coppia che si amava e aveva deciso di avere un figlio, dall’altra c’erano persone che criticavano quella scelta avendo seminato figli nel mondo senza mai occuparsene. Da un lato una paternità biologica senza responsabilità etica, dall’altra una paternità extra biologica fondata su una responsabilità etica».
La scomparsa del padre ha tra le sue conseguenze la nascita di una inedita figura di figlio che lei ha descritto nel saggio “Il complesso di Telemaco”… «Il tempo dei nostri figli è il tempo di Telemaco che non è solo una figura della nostalgia. Telemaco è il figlio giusto che ha il coraggio di mettersi in moto, di compiere il proprio viaggio. È il viaggio del figlio che rende possibile il ritorno di Ulisse. Per questo ho ribattezzato la generazione di oggi, “generazione Telemaco”. Se i padri non hanno lasciato niente ai figli, tocca ai figli fare il viaggio, diventare eredi, interpretare in modo nuovo quello che hanno ricevuto. Anche se non hanno ricevuto Regni ma solo debiti! Da questo punto di vista possiamo dire che nelle nuove narrazioni irrompe anche e soprattutto una nuova figura di figlio».
Repubblica 30.10.16
I tabù del mondo
Andare o restare il dilemma antico del fine vita
Possiamo scegliere quando morire? Sant’Agostino, in linea col pensiero cristiano, considerava l’esistenza un dono. Ed è vero che, anche al di là della religione, noi non ci apparteniamo fino in fondo. Per questo preferire un addio dignitoso all’accanimento non è superbia ma accettazione dei nostri limiti
Non si tratta di rinunciare a resistere senza lottare quanto di assumere, di fronte all’inesorabilità della malattia, il sentimento umanissimo della resa
di Massimo Recalcati
In Italia il tema dell’eutanasia è un tabù. Impossibile ragionarci senza che il richiamo all’ideologia ottunda ogni forma di pensiero libero. Eppure l’interrogativo che esso pone è chiaro, impellente e inaggirabile: è giusto che la vita umana decida di porre fine a sofferenze che non è più in grado di sopportare e che non comportano nessuna speranza? Riconoscere questa giustizia — riconoscere il diritto a una morte giusta e degna — cancella fatalmente ogni debito verso coloro o colui — Dio, in una prospettiva religiosa — che ci ha donato la vita? È vero: io non sono padrone della mia vita, né del mio corpo: non ho scelto di vivere, non ho voluto questo corpo, non ho deciso la classe sociale di appartenenza, il colore della mia pelle. La vita viene alla vita — come ci ha spiegato bene l’esistenzialismo filosofico — gettata nel mondo in una condizione di spossessamento: nessuno di noi è un ens causa sui, nessuno di noi è causa della propria vita. La vita viene sempre dall’Altro. Ma la constatazione ontologica che la mia vita non è padrona della sua origine può suffragare il rifiuto di donare la morte a vite straziate e piegate da malattie che non lasciano speranza alcuna? Da vite che hanno perduto ormai qualunque forma di libertà? La vita che ciascuno di noi non ha scelto, ma che ha ereditato dall’Altro — come un dono (Sant’Agostino) o come una colpa (Schopenhauer) — ha il diritto di porre fine a se stessa di fronte a dolori insopportabili che escludono ogni possibilità di miglioramento oltre che di guarigione? Quando si parla di autodeterminazione si evoca un principio etico sufficiente ad attribuire il diritto di una vita a scegliere liberamente di poter morire?
Proviamo a prendere le cose da tutt’altra prospettiva rispetto a quella a cui ci ha abituato il dibattito nostrano pro o contro eutanasia. La psicoanalisi insegna che la vita che si ammala e diventa sterile, asfittica, spenta, è la vita eccessivamente attaccata a se stessa. È l’attaccamento all’Io — l’impossibilità di decentrarsi da noi stessi — a costituire il principale motivo che causa la sofferenza psichica. Non possiamo provare a trarre da questo principio cardine della psicoanalisi un insegnamento esistenziale più ampio? L’attaccamento eccessivo alla vita può essere una forma di distruzione della vita? L’accanimento della vita a prolungare comunque se stessa a qualunque condizione nell’illusione di evitare l’appuntamento con la morte non può rivelarsi come una forma estrema di narcisismo? Cosa ci appare più umano, più ricco, più generativo? Donare la morte a una vita che è stata inghiottita dall’insensatezza del dolore senza speranza o accanirsi per mantenere in vita una vita che non ha più la dignità di essere tale, privata persino della libertà di lasciarsi morire? Due termini della teologia di Dietrich Bonhoeffer ci vengono in aiuto: sono quelli di resistenza e resa. La vita è innanzitutto resistenza alla morte, alla distruzione, al Male.
È la parola chiave di Gesù che risuona in Freud, il quale, anche personalmente, diede una grande prova etica di questa resistenza convivendo con un tumore alla mascella che lo costrinse a subire dolori atroci per vent’anni obbligandolo a sottoporsi a una serie infinita di operazioni chirurgiche sino alla fine dei suoi giorni. Ma, come accadde a Freud, esiste un punto in cui la resistenza della vita può apparire segno di arroganza e di negazione del limite. Anche il potere della tecnica che orienta il discorso medico dovrebbe essere in grado di accettare che la vita debba incontrare prima o poi il tempo della sua resa. È allora l’esperienza della resa il tabù che si nasconde dietro il rifiuto della eutanasia? Darsi o dare la morte quando la vita incontra un muro invalicabile — quello di una malattia mortale che ha demolito ogni capacità di resistenza della vita o quello di un coma irreversibile che ha cancellato ogni sua consapevolezza — non è mai fuggire il limite, ma assumerlo.
È segno di prepotenza riconoscere la nostra fragilità o esigere la continuazione della vita ad ogni costo? Lo ricorda una scena decisiva di Million dollar baby di Clint Eastwood. Una campionessa di pugilato (Maggie) è stata ridotta da un colpo-killer subito nel suo ultimo combattimento a vivere completamente paralizzata, alimentata da una macchina. Di fronte al rifiuto di Maggie di vivere una vita che non assomiglia più alla vita che aveva amato, il suo allenatore, Frankie, decide — agendo anche contro la Legge — di donarle la morte. Dov’è qui l’arroganza, la decisione arbitraria, il narcisismo dell’Io che si vuole padrone di se stesso? È del gesto amorevole di Frankie che vuole risparmiare a Maggie una sofferenza tanto atroce quanto inutile o nella cecità della Legge che proibisce questo gesto? Il diritto laico all’autodeterminazione non implica alcun delirio di autoaffermazione. La vita non è nostra, non ne siamo i padroni, non la governiamo; essa ci sfugge da tutte le parti. Tutti gli esseri umani sono sovrastati, esposti a questa eccedenza ingovernabile. Freud lo diceva chiaramente: la malattia e la morte del nostro corpo scardinano ogni illusione di padronanza. Nel donare la morte attraverso l’eutanasia non si tratta di rinunciare a resistere, ma di assumere, di fronte alla inesorabilità irreversibile della malattia, il sentimento della resa, di fare spazio alla nostra insufficienza. È infatti, il sentimento della resa, assai più di quello euforico della vittoria, a rendere la nostra vita profondamente umana.
Repubblica 30.10.16
Caccia alla materia oscura
È invisibile, ma tiene insieme l’universo. E chi la scopre rivoluzionerà la fisica
In una lecture a Genova la ricercatrice Elena Aprile spiega un enigma che dura da ottant’anni
di Giuliano Aluffi
È come una rete che collega tutto.
La forza di gravità che esercita sulle galassie le fa ruotare vorticosamente
Chi percorre la lunga galleria nel cuore della montagna che domina L’Aquila, può non badare troppo a una deviazione di pochi metri che, sotto una luce bluastra, conduce a un portone blindato. Dall’altra parte, nascosta agli occhi del pubblico, c’è una dimensione futuristica, dove si aggirano indaffarate e curiose menti tra le più fervide della ricerca fisica internazionale. È il mondo segreto dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso. La parola d’ordine per accedervi è quasi da 007: “Sono Xenon”. È così che si fanno riconoscere la fisica Elena Aprile, allieva di Carlo Rubbia al Cern e da trent’anni docente alla Columbia University di New York, e i 130 ricercatori della sua squadra, quella del progetto Xenon 1T. Imperniato su un esperimento che, sulla carta, appare paradossale: «Trovare almeno una piccolissima traccia della sostanza più abbondante dell’Universo, le cui particelle ci attraversano a miliardi ogni secondo. Detto così sembra facile, vero? Ma da 80 anni è uno dei maggiori enigmi della scienza», spiega Elena Aprile, che il 4 novembre terrà una lecture al Festival della Scienza di Genova. «Perché quella sostanza è la materia oscura. È lo scheletro dell’universo, la rete che tiene assieme tutte le galassie. Se di notte guarda a occhio nudo la Via Lattea, ossia la sezione della nostra galassia, può immaginare la materia oscura come un alone sferico, seppure invisibile, che la avvolge». E poi c’è la materia oscura negli interstizi tra le galassie: «È come un reticolo di filamenti che collegano tutto. Nessuno l’ha mai vista, perché non emette luce né la assorbe, eppure siamo sicuri che costituisca l’85 per cento dell’universo, perché solo la forza di gravità che esercita sulle galassie può spiegare la velocità con cui queste ruotano», sottolinea. «E purtroppo è rarissimo che la materia oscura si “scontri” con quella ordinaria lasciando tracce di sé». Da cosa è composta? «Non dalle particelle che conosciamo» risponde la scienziata. «Pensiamo sia fatta da nuove particelle, di cui ignoriamo la massa, anche se indicazioni che arrivano dal Large Hadron Collider suggeriscono che siano mille volte più pesanti di un protone». Pesanti e onnipresenti, ma elusive: tanto che per i fisici avere l’oggetto del proprio studio intorno a sé, ma evanescente come un miraggio, deve essere un supplizio.
Però nessuno ha più chance di Elena Aprile di identificare quelle che gli scienziati chiamano Wimp (Weakly Interacting Massive Particle, particelle dotate di massa ma che interagiscono debolmente con le altre), perché il suo è lo strumento più sensibile: «Quando una particella Wimp cozza contro un atomo, impartisce una spinta al suo nucleo, e la collisione può far liberare qualche elettrone: sono questi i due segni che il mio rilevatore, Xenon 1T, può captare», spiega. «Proprio perché questi eventi sono rarissimi, maggiore è la massa del rilevatore, più uno dei suoi atomi può scontrarsi con una particella Wimp. La densità del nostro xenon liquido ci permette di versarne una tonnellata in un metro cubo. Tutti questi atomi di xenon dovrebbero consentirci di intercettare, in un anno, almeno una particella oscura. Ma quand’anche la trovassimo, sarebbe presto per cantare vittoria, perché servirebbero conferme dagli esperimenti che cercano la materia oscura per altre vie». E in luoghi come i ghiacci dell’Antartide, dove il telescopio IceCube cerca i neutrini e i raggi gamma prodotti dal decadimento della materia oscura. Oppure lo spazio, dove operano il satellite-telescopio Fermi, che ha lo stesso obiettivo di IceCube, e lo spettrometro AMS a bordo della Stazione Spaziale Internazionale, che scruta la composizione dei raggi cosmici in cerca di particelle oscure diverse dalle Wimp e, per ora, altrettanto ipotetiche: i neutralini. Oppure il Cern, dove la strada verso le Wimp è più autarchica: costruirle dalla collisione di altre particelle sparate negli anelli del Large Hadron Collider. L’estrema sensibilità di Xenon T1 è sia un punto di forza che un cruccio: «Richiede di azzerare il rumore di fondo, ossia ogni interferenza elettromagnetica dall’esterno. Come i raggi cosmici: lavoriamo dentro il Gran Sasso perché ci scherma con 1.400 metri di roccia». Qualsiasi momento potrebbe essere buono per una scoperta che farà riscrivere i manuali di fisica. «Sono convinta che entro la fine del decennio qualcosa succederà. O almeno chiariremo che siamo sulla strada sbagliata. E guarderemo altrove». C’è solo l’imbarazzo della scelta: la materia oscura è in cielo, in terra e in ogni luogo.
Repubblica 30.10.16
Il Nobel Martin Chalfie
E nella cellula arrivò la luce
intervista di Matteo Marini
Se oggi riusciamo a guardare dentro a una cellula, a vedere la vita nel momento in cui accade, lo dobbiamo anche a Martin Chalfie, biologo statunitense della Columbia University, che assieme ai colleghi Osamu Shimomura e Roger Y. Tsien ha scoperto la Green fluorescent protein. Ricavata dalla medusa Aequorea victoria, è una sostanza usata come marcatore per osservare i processi che avvengono all’interno delle cellule. Al Festival della Scienza il 5 novembre il biologo racconterà la sua rivoluzione luminescente, che gli ha fatto vincere il premio Nobel per la chimica nel 2008.
Quali progressi ha favorito la Gfp?
«Ci ha permesso di osservare la vita in tessuti sani e viventi: come le cellule interagiscono l’una con l’altra, in che modo i virus e i batteri o le cellule tumorali interagiscono con i tessuti nel tempo e non, come prima, facendo congetture su campioni morti, preparati in laboratorio. L’Hiv, per esempio, si propaga internamente alla cellula e gli anticorpi non possono attaccarlo. Ora possiamo osservare tutto questo mentre succede. Se puoi vedere qualcosa, puoi anche studiarla».
Quali innovazioni si aspetta in biologia e medicina?
«Roger Y. Tsien, una delle persone che ha diviso il Nobel con me, è morto lo scorso agosto. Stava lavorando su una proteina per identificare le cellule tumorali. Se anche piccoli numeri di cellule tumorali fossero marcati con la fluorescenza e si potessero vedere, il chirurgo potrebbe rimuoverli. Spero che il lavoro di Tsien sia portato avanti. Inoltre stiamo assistendo a una sorprendente rivoluzione basata sulla sequenza genetica che, penso, sarà fondamentale nella comprensione della biologia umana e per lo sviluppo di medicine “personalizzate” anche per pazienti affetti da sindromi rarissime. Temo però che per le case farmaceutiche queste cure non siano abbastanza remunerative per giustificarne lo sviluppo».
A che punto è la ricerca su sviluppo e funzioni delle cellule nervose?
«Noi studiamo le cellule nervose del tatto in alcuni animali, come interagiscono col mondo. La nostra è biologia di base, non lavoriamo su malattie specifiche ma speriamo possano essere utili nel futuro. La Gfp ha condotto a risultati che nemmeno potevo immaginare».
Uno studio pubblicato su “Nature” fissa a 122 anni il limite di vita per l’uomo. È una soglia superabile?
«Molti problemi che abbiamo oggi riguardano un’età molto precedente ai 122 anni: parlo del fumo, dell’obesità in alcune parti del mondo e della malnutrizione in altre. E poi di due miliardi di persone che soffrono delle cosiddette “malattie tropicali neglette”. Una volta risolti questi problemi potremo preoccuparci se possiamo arrivare a 122 anni».
Qual è la sua opinione riguardo all’eutanasia?
«Ci sono tante persone che soffrono di malattie orribili e non vogliono vedere se stessi percorrere una strada di decadimento inevitabile. Penso che una persona debba essere in grado di morire con dignità».
Il Sole Nova 30.10.16
Uno sciame di particelle all’origine della vita?
di Roberto Mussa
Lo studio dei raggi cosmici è tra i settori più fertili della fisica moderna. Essi sono particelle cariche, distribuite su un enorme intervallo di energie, che a ogni istante bombardano la terra. Il Sole è responsabile di gran parte della produzione dei raggi cosmici generando un flusso di elettroni, protoni e nuclei di elio di bassa energia, chiamato vento solare. Occasionalmente, in prossimità delle macchie solari, si hanno tempeste magnetiche che accompagnano l'espulsione di fiotti di particelle di maggiore energia, che nelle regioni polari possono dare origine al fenomeno delle aurore. Oltre alle particelle provenienti dal Sole, c'è una frazione più energetica e scientificamente più interessante che giunge a noi da sorgenti lontane sia dall'interno della nostra Galassia sia dallo spazio profondo. Queste particelle raramente raggiungono la superficie della terra, perchè sono deviate o intrappolate dal campo magnetico terrestre. Indipendentemente dalla loro origine, i raggi cosmici interagiscono con i nuclei di azoto e ossigeno negli strati alti dell'atmosfera, producendo sciami di particelle che, se l'energia del primario è sufficientemente elevata, possono arrivare a livello del mare, e addirittura penetrare strati di roccia. Diversamente dalla luce delle stelle e delle galassie, che ci raggiunge con un percorso rettilineo, i raggi cosmici di origine extrasolare, elettricamente carichi, sono influenzati, nel loro cammino, dall'azione dei campi magnetici prodotti dai corpi celesti, che deviano il loro percorso e ci impediscono di identificarne le sorgenti. È altamente probabile che la maggioranza dei raggi cosmici venga prodotta, all'interno della nostra galassia, durante le esplosioni delle supernovae.
Recentemente, il satellite Ace della Nasa ha osservato nei raggi cosmici un isotopo radioattivo del ferro (Fe-60) con una vita media di pochi milioni di anni. Questa scoperta, assieme allo studio dei fossili, suggerisce che due recenti estinzioni di massa, avvenute rispettivamente 2 e 8 milioni di anni fa, possano essere state causate dall'esplosione di supernovae a circa 300 anni-luce dalla Terra. In che modo? Un grande aumento della loro intensità a livello del mare può avere distrutto il plancton che vive in superficie. D'altra parte, la presenza di radiazione ionizzante sulla superficie terrestre può anche avere accelerato il tasso naturale di mutazioni genetiche, favorendo l'evoluzione della vita e la comparsa di nuove specie.
Inoltre, i raggi cosmici hanno un ruolo nella formazione di nuvole, e nella conseguente riduzione dell'irraggiamento solare che causò le glaciazioni che precedettero l'arrivo dell'Uomo. Le esplosioni di supernove non sono però gli eventi più energetici del nostro Universo: fuori dalla nostra galassia, esistono fenomeni ancora più violenti, che producono i raggi cosmici ultraenergetici, la cui natura e origine è ancora un mistero.
Alla caccia di questi formidabili acceleratori naturali, scienziati da tutto il mondo, in maggioranza tedeschi, italiani e argentini, hanno costruito, nella pampa argentina, l'Osservatorio Pierre Auger. Dall'inizio del nuovo millennio, 1600 rivelatori, distribuiti su una superficie di 3000 chilometri quadrati, rivelano il segnale prodotto dai raggi cosmici ultraenergetici, alla ricerca di eventuali sorgenti nell'emisfero meridionale del cielo. E ora, giapponesi e statunitensi sono impegnati nell'espansione di un altro Osservatorio, il Progetto Telescope Array, nel deserto dello Utah, per scrutare l'altra metà del cielo.
Un altro aspetto interessante relativo ai raggi cosmici è il loro legame con l'antimateria. La scoperta (1932) dell'anti-elettrone, o positrone, nei raggi cosmici secondari, portò il fisico Usa Carl Anderson a condividere con Victor Hess il Premio Nobel della Fisica del 1936, a riconoscimento dell'enorme importanza di questi studi nella comprensione profonda della natura. L'anti-materia cosmica non finisce di sorprenderci: nell'ultimo decennio, il satellite italo-russo Pamela ha scoperto un'anomalia nel flusso dei positroni nei raggi cosmici primari che potrebbe dare una risposta all'enigma della natura della materia oscura. Dal 2011, nella stazione spaziale internazionale è stato quindi installato Ams-2, un rivelatore di particelle che condensa in poche tonnellate di peso tutte le tecnologie sviluppate per la fisica subnucleare, per approfondire le nostre conoscenze sull'antimateria cosmica. Chissà se, oltre alla materia oscura, non finiremo per scoprire un anti-mondo da qualche parte nell'universo?
Il Sole Nova 30.10.16
Scrutare l’invisibile attraverso i raggi cosmici
Ma questi fantomatici raggi cosmici esistono davvero? Hanno realmente il potere di modificare la struttura del nostro Dna?
di Germano Bonomi
Quattro eroici avventurieri, nel corso di una missione spaziale, vengono investiti da una tempesta di raggi cosmici che modifica per sempre la loro struttura cellulare, trasformandoli nella Donna Invisibile, nella Torcia Umana, nella Cosa e in Mr. Fantastic. È l’immaginaria storia raccontata nel mitico numero 1 del fumetto “The fantastic four!” pubblicato nel 1961. Ma questi fantomatici raggi cosmici esistono davvero? Hanno realmente il potere di modificare la struttura del nostro Dna?
Qualche anno dopo, nel 1970, il premio Nobel per la Fisica Luis W. Alvarez e i suoi colleghi utilizzano i raggi cosmici per determinare la struttura interna della piramide di Chephren alla ricerca di camere segrete (non trovandone). Da qui si incomincia a pensare di utilizzarli per “vedere” all'interno di strutture altrimenti non accessibili.
Ma cosa sono i raggi cosmici? I raggi cosmici primari sono particelle che provengono dal cosmo e che colpiscono continuamente il nostro pianeta interagendo con le molecole dell'alta atmosfera e generando cascate di particelle. I componenti di questi sciami vengono chiamati genericamente raggi cosmici secondari. Molti decadono in volo, mentre alcuni, per lo più muoni, particelle elementari simili agli elettroni, ma circa 200 volte più pesanti, sopravvivono sino al livello del suolo. Nel seguito useremo per semplicità, sebbene impropriamente, i termini raggi cosmici e muoni come sinonimi. La scoperta della radiazione cosmica risale all'inizio del XX secolo quando Victor Hess si accorse, grazie all'utilizzo di palloni aerostatici, che la radioattività naturale è maggiore quando ci si allontana da terra. Sebbene sembrasse molto strano era chiaro che, oltre alla radioattività proveniente dal suolo, dall'alto giungeva a noi una qualche altra forma di radiazione.
Quando interagiscono con la materia i raggi cosmici vengono rallentati e deviati dalla loro traiettoria originale. L'entità del rallentamento e della deviazione dipendono dall'energia del muone, dallo spessore e dal tipo di materiale attraversato. Gli effetti sulla materia sono in genere trascurabili, sebbene possano dare origine a rumore nei dispositivi elettronici e determinare modifiche a livello del Dna (non certo però nella maniera ipotizzata dai creatori dei Fantastici Quattro). In questo senso potrebbero anche aver favorito l'evoluzione umana e la grande varietà biologica del nostro pianeta.
Se a livello del mare il flusso dei raggi cosmici è di circa 10.000 particelle al metro quadrato per minuto, in altre parole circa 600 muoni attraversano il nostro corpo ogni minuto, sulla cima dell'Everest l'intensità è 100 volte maggiore. Per questo motivo i piloti di aerei sono dotati di dosimetri personali e non possono superare un certo numero di ore di volo. Oltre l'atmosfera la radiazione cosmica diventa così intensa che risulta particolarmente dannosa per il corpo umano. Questo, tra l'altro, è uno dei fattori limitanti, ancora irrisolti, nella programmazione di viaggi umani verso Marte.
In fisica nucleare e delle particelle, i raggi cosmici vengono utilizzati come strumenti per mettere a punto i rivelatori di particelle. Questo know-how ha permesso, a partire dagli anni 50' e 60' e con maggior frequenza negli ultimi decenni, un technology-transfer per impieghi in ambito civile. Oltre alla scansione della piramide di Chefren, i raggi cosmici sono stati utilizzati per misurare lo spessore di roccia sovrastante un tunnel e per sondare e monitorare l'interno di vulcani.
Queste applicazioni si basano sul fatto che attraversando un certo volume alcuni muoni vengono assorbiti; se il materiale non è troppo denso o spesso, misurando il numero di raggi cosmici che “sopravvivono”, si può stimare la composizione del volume. Nel 2003, ricercatori del laboratorio di Los Alamos hanno invece proposto di sfruttare le deviazioni delle traiettorie dei muoni. Misurando l'angolo di ingresso e di uscita di ogni singolo muone è possibile, con una statistica sufficiente e un complesso software di visualizzazione tomografica, ricostruire la geometria e la densità dei materiali contenuti nel volume. Questa tecnologia viene chiamata tomografia muonica.
Molti sono gli studi che negli ultimi anni, un po' in tutto il mondo, hanno preso spunto da questa idea originale. In Italia, nei Laboratori Nazionali di Legnaro dell'Infn (Istituto nazionale di fisica nucleare) è stato realizzato il primo dimostratore al mondo di grandi dimensioni, circa 10 metri cubi, e numerosi sono i gruppi impegnati in questo campo di ricerca. Tra le applicazioni possiamo citare i sistemi di controllo di camion e container, per l'individuazione di materiale nucleare, di monitoraggio di depositi di scorie radioattive e di controllo della stabilità di edifici storici. La tomografia muonica è stata anche utilizzata per ispezionare il nocciolo di uno dei reattori danneggiati della centrale nucleare di Fukushima.
Sebbene queste tecnologie siano ancora in fase di sviluppo è possibile prevedere che nei prossimi anni avranno una ricaduta sulla nostra vita di tutti i giorni, grazie a un processo lento ma virtuoso che travasa le conoscenze dal campo della ricerca fondamentale al mondo civile. Le possibilità di sviluppo sono notevoli dal momento che i raggi cosmici sono praticamente presenti ovunque e in ogni istante. In genere non ci accorgiamo della loro presenza, tuttavia, in particolari condizioni, danno un segnale della loro esistenza: intrappolati nel campo magnetico terrestre interagiscono con l'atmosfera nelle vicinanze dei poli, dando vita a quello splendido spettacolo delle aurore boreali.
Corriere 30.10.16
I segreti di energia e materia al prezzo di un euro
di Jessica Chia
Se guardiamo al mondo che ci circonda, alle teorie che cercano di spiegarlo e di decifrarne le leggi, ci scopriamo debitori delle intuizioni di alcune grandi menti. Ancora oggi seguiamo le lezioni di persone che hanno saputo osservare i fenomeni del pianeta con occhi diversi e originali. La nuova collana del «Corriere della Sera», dal titolo «Grandangolo Scienza», è dedicata proprio alle idee dei pensatori che hanno rivoluzionato il loro tempo e immaginato il nostro futuro. Albert Einstein. Dalla relatività alle onde gravitazionali è il titolo del primo volume, in edicola da mercoledì 2 novembre al prezzo di € 1 più il costo del quotidiano, di un percorso in 40 tappe che ha al centro i protagonisti della scienza. I volumi successivi, in uscita ogni settimana con il «Corriere» e «La Gazzetta dello Sport», saranno in vendita al prezzo di € 5,90 più il costo del quotidiano (la collana è disponibile anche in versione ebook, il primo libro a € 0,99, i seguenti a € 3,99). Il volume su Einstein, a cura di Leonardo Gariboldi, illustra la portata della teoria della relatività e spiega come la sua formulazione abbia cambiato il nostro modo di guardare all’universo, grazie a un uomo che ha saputo affidarsi all’immaginazione ancora prima che alla conoscenza. La collana prosegue illustrando l’opera di altri grandissimi scienziati, da Newton a Fermi, da Archimede a Galileo, da Fibonacci a Turing. Ogni libro è arricchito da un apparato bibliografico commentato, da elementi biografici, da un corpus del pensiero dell’autore e da sintesi inedite curate da studiosi e docenti universitari.
Repubblica Cult 30.10.16
Newton-Halley il lato creativo dell’amicizia
di Piergiorgio Odifreddi
Trecentosessanta anni fa, il 29 ottobre 1656 (secondo il calendario giuliano) nasceva Edmond Halley, il cui nome è legato alla famosa cometa. Non perché fu lui a scoprirla, ovviamente, ma perché fu lui a capire che le grandi comete del 1531, 1607 e 1682 erano in realtà la stessa, e a prevedere che essa sarebbe tornata nel 1758: cosa che puntualmente fece, dimostrando la maturità della moderna astronomia. I calcoli di Halley si basavano sui metodi sviluppati da Isaac Newton negli anni della peste di Londra, tra il 1665 e il 1666: la teoria della gravitazione universale, da un lato, e il calcolo infinitesimale, dall’altro. E proprio in questo mese di ottobre cade il 350esimo anniversario della scrittura del Trattato sulle flussioni, uno dei suoi capolavori giovanili, in cui Newton riassunse i risultati matematici raggiunti nel suo annus mirabilis.
Fu Halley a spingere Newton a scrivere, vent’anni dopo, il suo capolavoro maturo: i Principi matematici della filosofia naturale,
che cambiarono la storia della scienza e del mondo. Il giovane astronomo si sobbarcò il finanziamento e la cura dell’opera, compresa un’ode di prefazione in cui paragonava Newton a un novello Epicuro. E qualche anno dopo dimostrò di averla non solo curata, ma anche capita, usandone i metodi per calcolare l’orbita della cometa che ancor oggi annuncia il suo nome in tutto il Sistema Solare.
Corriere Salute 30.10.16
Prevenire anoressia e bulimia è possibile Cari genitori, fate così
di Carla Favaro
Nutrizionista
Quando si tratta di adolescenti tutto ciò che riguarda il peso va affrontato con la dovuta cautela per non correre il rischio di incoraggiare un’eccessiva preoccupazione per il corpo, che potrebbe favorire l’esordio di disturbi del comportamento alimentare (anoressia nervosa, bulimia nervosa o disturbi da alimentazione incontrollata).
Ma allora come prevenire l’obesità senza correre rischi?
Un recente documento dell’ American Academy of Pediatrics ha affrontato l’argomento, fornendo utili consigli a pediatri e genitori.
La prima raccomandazione riguarda le diete dimagranti e l’argomento peso: le prime vanno scoraggiate; del peso, meglio non parlare, sia quello dei figli, sia quello di genitori, parenti o amici, per non favorire la focalizzazione sull’immagine corporea e lasciar sottintendere che solo la magrezza è vincente. È invece importante cercare di favorire nei ragazzi un’immagine corporea positiva (questa è la rappresentazione mentale che l’individuo ha del proprio corpo anche se a volte solo soggettiva).
Che ragazze e ragazzi siano insoddisfatti del loro corpo è frequente, ma aumentare questa insoddisfazione li mette a rischio sia di obesità sia di disturbi dell’alimentazione.
Chiarisce Giuseppe Banderali, direttore Unità Operativa Complessa Pediatria, Ospedale San Paolo, Milano: «L’insoddisfazione corporea è spesso un po’ lo specchio del pensiero della nostra società. I genitori possono fare molto, se sono di esempio, in un atteggiamento salutare verso cibo e attività motoria e se evitano apprezzamenti negativi sulla forma fisica , sottolineando invece le abilità e le doti interiori per cui sono fieri dei loro figli».
E per quanto riguarda il comportamento da tenere a tavola? Il documento dell’ American Academy of Pediatrics incoraggia le famiglie a parlare di sane abitudini alimentari e relative all’attività fisica e consiglia ai genitori di mangiare spesso insieme ai figli, perché i pasti in famiglia sono un’ottima occasione per offrire un modello salutare, ma anche per interagire con loro e per cogliere subito eventuali segnali di allarme.
«Ma attenzione al controllo eccessivo, — sottolinea Banderali — quello che si consiglia è di riunire la famiglia intorno al tavolo promuovendo il benessere psicologico e nutrizionale e combattendo solitudine e isolamento».
«Questo documento, però, si rivolge prima di tutto ai pediatri: occorre che valutino il peso di bambini e ragazzi e il loro stile di vita e, se necessario, intervengano, ma senza giudicare — ricorda Rita Tanas, pediatra endocrinologa — oggi lo stigma sul peso è forte e universalmente condiviso, spesso anche in ambito sanitario. Uno strumento che può migliorare comunicazione e relazione professionale è il “colloquio di motivazione”. Si tratta di uno stile di comunicazione, attento al linguaggio, basato sull’assoluto rispetto per la persona, progettato per suscitare o rafforzare la motivazione personale e l’impegno di chi vuole cambiare, esplorando le ragioni del cambiamento in un clima fatto di accettazione ed empatia. Quando l’obesità si affronta nel rispetto dei principi del colloquio di motivazione, non si rischia di indurre altre patologie».