La Stampa TuttoLibri 22.10.16
Il libro di Paolo Mieli
Non fidatevi della Storia racconta bugie da millenni
Da Cicerone agli schiavi di Lincoln, fino alle Guerre mondiali, viaggio in 27 tappe nel passato che credevamo di conoscere
di Alessandro Barbero
Anche
nelle epoche che si credono più spregiudicate, scoprire che il passato è
diverso da come credevamo può provocare costernazione.
Nell’introduzione al suo nuovo libro, In guerra con il passato. Le
falsificazioni della storia, Paolo Mieli ricorda quello che è forse, ai
nostri tempi, il caso più clamoroso di demolizione di un intero pezzo
del passato, grazie ai progressi della ricerca storica (e, in questo
caso, archeologica).
Dopo che per millenni, sulla base della
Bibbia, si era creduto che intorno al 1000 avanti Cristo esistesse in
Medio Oriente un grande e potente regno di Israele, esteso dall’Eufrate
fino a Gaza, gli archeologi israeliani hanno scoperto che non è vero
niente: a quell’epoca gli ebrei erano tribù di pastori primitivi senza
nessuna unità politica, Gerusalemme era un villaggio, e Davide e
Salomone, ammesso che siano esistiti, erano dei capitribù. Va ad onore
della cultura israeliana aver preso atto senza drammi di questi dati
ormai indiscutibili, nonostante la tempesta mediatica che hanno
provocato nel Paese.
In questo caso non si tratta di accusare
qualcuno (salvo, eventualmente, gli autori del Secondo Libro di Samuele e
del Primo Libro dei Re) di aver falsificato volutamente la storia. Le
falsificazioni con cui fa i conti Paolo Mieli sono piuttosto le versioni
tradizionali della storia, alimentate a volte dalla propaganda dei
governi, più spesso dall’inerzia dei libri scolastici e dalla pigrizia
del pubblico, e che regolarmente rivelano le loro crepe non appena uno
studioso le rimette in discussione con uno sguardo innovativo. Non si
tratta, sia chiaro, dello stucchevole pseudo-revisionismo così di moda
oggi, di chi scopre che la Rivoluzione francese ha sparso molto sangue,
l’Italia del Risorgimento era un Paese pieno di intrallazzi, i
partigiani hanno commesso a volte dei delitti, e gli americani hanno
bombardato Dresda anche se non era necessario: l’autore, chapeau!, non
menziona neanche una volta la parola revisionismo. Si tratta invece
della naturale dinamica degli studi storici, per cui ogni storico che
affronta un argomento anche già molto studiato può sempre aggiungere un
punto di vista nuovo, può talvolta scovare nuove fonti, e può spesso
modificare l’interpretazione del passato.
Il libro di Mieli è una
ricognizione puntuale, erudita e divertita, di questa che è,
ripetiamolo, la condizione normale della storiografia. È una rassegna
bibliografica che in ogni capitolo, e ce ne sono ben 27, propone un tema
storico su cui credevamo di sapere tutto e presenta al lettore gli
studi più recenti che ne hanno rinnovato l’interpretazione. Verre era
davvero quel politico corrotto che ci presenta Cicerone? Con quali mezzi
Augusto arrivò al potere? I martiri di Otranto morirono davvero per la
fede? Lincoln fece davvero la guerra per abolire la schiavitù? La
Seconda Guerra Mondiale è davvero finita nel 1945? La collusione fra
Stato e mafia, in Italia, è davvero una novità della Prima Repubblica?
Nelle
pagine di Mieli, il lettore farà la conoscenza di innumerevoli storici
d’oggi, qualcuno già noto al grande pubblico, altri meno; da Francesco
Benigno, che ne La mala setta dimostra come i governi italiani
«intrattennero rapporti con la malavita organizzata fin dalla fondazione
del nostro Stato unitario», ad Aldo Schiavone che in Ponzio Pilato
s’interroga sulla possibilità di una «tacita intesa» fra Gesù e il
prefetto di Giudea; da Germano Maifreda che ne I denari dell’Inquisitore
svela come le multe, più dei roghi, rendessero temuto il Sant’Uffizio, a
Marco Natalizi che ne Il burattinaio dell’ultimo zar propone un
ritratto nuovo e complesso del famigerato Rasputin.
Attraverso il
lavoro di decine di colleghi, Paolo Mieli propone un viaggio attraverso
un passato che ogni giorno si modifica ai nostri occhi, anche perché col
moltiplicarsi degli studi diventa possibile uno sguardo più
sfaccettato, affiorano sempre più gli individualismi e le stonature,
così evidenti quando guardiamo al mondo in cui viviamo, e che quando
pensiamo al passato rischiano di rimanere occultati. Quel senatore della
South Carolina che paragonava con orgoglio la condizione degli schiavi
del Sud a quella degli operai del Nord («I nostri schiavi sono assunti a
vita, non c’è fame per loro, non ci sono accattoni, non c’è
disoccupazione»), o quello storico inglese che nel 1871 esaltava la
formazione del Reich tedesco come garanzia di pace, con «la nobile,
paziente, pia e solida Germania» avviata a dominare l’Europa al posto
della «nevrotica, vanagloriosa, gesticolante, rissosa, inquieta e
ipersensibile Francia», oggi ci possono far sorridere, ma la verità è
che il passato era come il presente, confuso, colorato, incomprensibile,
e il mestiere dello storico consiste sì nel cercare di renderlo un poco
più comprensibile, ma senza mai perdere di vista cosa significava
viverci dentro.