il manifesto 22.10-16
Cinquant’anni fa il graffio all’America delle Pantere nere
di Alberto Benvenuti
È
tristemente ironico pensare che in queste settimane in cui si
moltiplicano i video di violenze e esecuzioni sommarie di giovani
afro-americani per mano di agenti male addestrati, si celebrino negli
Stati uniti anche i cinquant’anni della nascita delle Pantere nere,
fondate da Huey Newton e Bobby Seale nel 1966 per evitare che gli agenti
perpetrassero violenze sugli afro-americani di Oakland, una città della
Bay Area della California.
Quando Newton e Seale, due ex studenti
del Merritt College che si erano conosciuti a una manifestazione
pro-Cuba durante la crisi dei missili, decisero di organizzare un gruppo
armato, lo fecero infatti per difendere i diritti costituzionali dei
neri della loro comunità, armati di un fucile e di un libretto di
diritto. Pattugliavano la Bay Area, soprattutto di notte, e quando
vedevano un nero fermato dalle forze di polizia, si tenevano a distanza
di sicurezza e controllavano che la situazione non degenerasse. «Ci
facevano una paura fottuta», racconteranno più tardi gli agenti.
Erano,
quelli, anni tumultuosi nei ghetti neri delle grandi aree metropolitane
statunitensi. Per molti afro-americani il movimento nonviolento guidato
da Martin Luther King aveva fallito, le loro vite non erano cambiate,
il degrado economico e la segregazione de facto persistevano.
L’obiettivo per molti giovani divenne la rivoluzione, il black power e
il controllo delle loro comunità, la linea da seguire quella delle
guerre di liberazione del Terzo mondo, i maestri Che Guevara, Mao,
Nkrumah, Lumumba, Castro e Malcolm X. Con i paesi del Terzo mondo
sentivano di condividere la condizione di oppressione coloniale, di
essere cioè loro stessi parte di una colonia interna alla superpotenza
che esportava libertà: le Pantere nere offrirono a questi giovani una
risposta che coniugasse il romanticismo rivoluzionario alla necessità
pragmatica di uscire da una condizione di oppressione.
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Dei
due fondatori, Huey Newton era il visionario, rappresentava l’eroe
bello e intelligente sul quale deporre le speranze rivoluzionarie; Bobby
Seale era invece più pragmatico e controbilanciava il temperamento
imprevedibile del compagno. Prepararono insieme un programma in dieci
punti di ispirazione socialista e terzomondista e radunarono attorno a
loro un piccolo gruppo di giovani neri con storie difficili, spesso
legate alla criminalità, che trovarono nell’appartenenza alle Pantere
una causa alla quale dedicarsi. Il Black panther party cominciò così a
crescere, alle ronde si accompagnarono iniziative sociali e aumentò
anche il sostegno tra gli afro-americani della Bay Area. Gli agenti
erano pigs, maiali, nel linguaggio comune del ghetto, i nemici che
rappresentavano un governo dal quale ci si doveva proteggere, anche con
le armi.
In risposta al fenomeno delle ronde armate, nel maggio
del 1967, l’allora governatore della California Ronald Reagan firmò una
legge, il Mulford Act, che limitava il porto d’armi in pubblico di
privati cittadini. Quella legge rappresentò l’occasione che molti
attivisti aspettavano per il lancio dell’organizzazione a livello
nazionale: ripresi da telecamere e fotografi, una ventina di Pantere
entrarono, armi in pugno, nell’assemblea legislativa di Sacramento,
capitale dello stato, per protestare contro la decisione del governo. Il
successo mediatico fu immediato: tutti i giornali del paese iniziarono a
parlare di questo gruppo di afro-americani della California che si
vestiva di nero, si professava marxista leninista, parlava di
rivoluzione e si ispirava a Malcolm X.
Poco dopo, nel settembre
del 1967, Newton venne arrestato con l’accusa di aver ucciso un
poliziotto. L’arresto della mente delle Pantere, che avrebbe potuto
compromettere la vita stessa del gruppo, ebbe invece l’effetto di creare
un movimento interrazziale per la sua liberazione (al quale
parteciparono numerosi intellettuali e attori, tra cui Marlon Brando)
che amplificò ancora di più il messaggio del Black panther party. Molte
sedi nacquero in tutti i ghetti delle grandi città e a ronde e
manifestazioni andarono sempre di più affiancandosi programmi di
assistenza sociale – dalla distribuzione di pasti caldi ai bambini,
all’assistenza sanitaria gratuita – che furono il vero canale di dialogo
con le comunità nere. Programmi, tra l’altro, gestiti quasi interamente
da donne. Sebbene infatti la storia del Black panther party sia spesso
associata all’immagine dell’afro-americano rivoluzionario con il
berretto, il giubbotto di pelle nera e il fucile in mano, le pantere non
erano affatto solo uomini; anzi le attiviste risposero con coraggio al
machismo dilagante dei primi anni, aumentarono esponenzialmente la loro
partecipazione e divennero, alla fine degli anni Sessanta, numericamente
più rilevanti degli uomini.
Le pantere nere erano
l’organizzazione più rappresentativa e influente di quel movimento di
rivendicazione politica, culturale e economica che fu il black power, e i
suoi membri aumentarono fino a 5mila unità – numeri che comunque non
rendono giustizia alla portata e all’influenza che ebbero in quegli
anni. Anche per questo J. Edgar Hoover, il famigerato direttore a capo
dell’Fbi da quasi mezzo secolo, che aveva un potere sostanzialmente
illimitato ed era in grado di influenzare Congresso e presidenti, lo
considerava il «più grosso pericolo per la sicurezza interna del paese».
A partire dal 1968 Hoover autorizzò centinaia di operazioni clandestine
del programma di controspionaggio Cointelpro, che con l’utilizzo di
infiltrati, depistaggi, arresti sommari e omicidi, destabilizzarono
enormemente il gruppo. Il caso più eclatante fu quello di Fred Hampton,
giovane e carismatico leader della sezione di Chicago, assassinato
dall’Fbi durante un’irruzione notturna in un appartamento dove viveva
con alcuni compagni. Hampton fu la vittima di una delle più ricorrenti
paranoie di Hoover, quella dell’avvento di un nuovo messia nero in grado
di mobilitare le masse.
L’Fbi continuò a infiltrarsi in tutte le
sezioni del Black panther party del paese a un livello tale che «nel
1970 le pantere erano controllate per metà da Huey e Seale e per metà
dall’Fbi», come avrebbe ricordato più tardi un agente sotto copertura.
L’impatto delle attività del Cointelpro fu devastante e fu, direttamente
o indirettamente, il motivo principale del declino dell’organizzazione
già dai primissimi anni Settanta. Quando Newton uscì di carcere nel
1970, infatti, non fu capace di tenere unito il Black Panther Party, sia
per le faide interne (che portarono anche alla rottura con Seale), sia
per la sua incapacità di imprimere all’organizzazione una linea politica
chiara. Andò a Cuba nel 1974 per sfuggire a una nuova accusa di
omicidio e lasciò la guida del partito a Elaine Brown, una sua
fedelissima. Ma era ormai tardi, le Pantere nere non sopravvissero alla
nuova serie di arresti, espulsioni, omicidi e abbandoni degli anni
Settanta e alla fine del decennio rimasero operative solo poche sezioni.
Il
Black panther party non aveva sovvertito il sistema, non aveva
ribaltato il capitalismo e neppure aveva sconfitto la white supremacy,
ma fu capace di infondere in una generazione di giovani neri un senso di
orgoglio razziale come poche organizzazioni erano riuscite a fare prima
e a contribuire a una stagione di impegno politico militante
afro-americano che avrebbe caratterizzato i decenni successivi.