il manifesto 22.10.16
Festa della neolingua
Lo showroom della lingua italiana, firmato Marchionne
A
Firenze, Petrarca e Boccaccio vanno sulla Maserati di Marchionne,
campione dell’italianità con la residenza in Svizzera. La cultura messa
al servizio del mercato
di Tomaso Montanari
«Proporre
la qualità Italia è la sfida di fronte a noi: proporre l’umanesimo che
deriva dalla nostra cultura, dal modo di vivere, di lavorare». Così
Sergio Mattarella, pochi giorni fa a Firenze. Ma il Capo dello Stato si
rivolgeva ai cittadini o agli investitori; parlava di cultura, identità,
comunità o di mercato, marchio, prodotto?
L’esame del contesto
moltiplica l’ambiguità: si trattava di un’occasione apparentemente
culturale (la pretenziosa etichetta recitava: «Stati generali della
lingua italiana»), ma ad organizzarla non era il ministero
dell’Istruzione o quello dei Beni culturali, bensì la Direzione Generale
Promozione Sistema Paese (a proposito di italiano!) del ministero degli
Esteri.
Più chiaro, come sempre, il presidente del Consiglio
Matteo Renzi, quando aprendo i lavori aveva parlato della necessità «di
una gigantesca scommessa culturale sul made in Italy, se vogliamo che
l’italiano sia studiato»: una prospettiva davvero incoraggiante, non da
ultimo per quell’uso tragicomico dell’inglese.
Ma a togliere ogni dubbio era l’apparato non verbale della manifestazione, in Palazzo Vecchio.
Nell’adiacente
piazzale degli Uffizi erano infatti esposte due scintillanti auto di
lusso: all’incredulità e all’indignazione dei passanti, esterrefatti
dalla riduzione a show room dello spazio pubblico monumentale,
l’ineffabile assessore (all’Istruzione!) Cristina Giachi replicava che
«allo sponsor qualcosa si deve pur concedere». Già, perché un evento cui
intervenivano il Capo dello Stato, il presidente del Consiglio e vari
ministri aveva in effetti uno sponsor ufficiale: la Maserati.
Non so quanti precedenti abbia una simile scelta, che riduce i vertici della Repubblica a testimonial di un marchio commerciale.
Particolare
grottesco, le due auto erano collocate in corrispondenza delle statue
di due padri della lingua italiana (cito dal sito della casa
automobilistica): «La Maserati Quattroporte esposta a Firenze da questa
mattina è di colore bianco ed è situata esattamente sotto la statua di
Francesco Petrarca, mentre Alfa Romeo Giulia Quadrifoglio con motore 2.9
litri V6 da 510 cavalli di colore rosso si trova sotto la statua di
Giovanni Boccaccio. Questa iniziativa rappresenta uno dei numerosi modi
trovati negli ultimi tempi dal gruppo italo americano del numero uno
Sergio Marchionne per promuovere la propria gamma di prodotti».
Affidare
la bandiera dell’italianità ad un gruppo il cui quartier generale e il
cui domicilio fiscale hanno lasciato il Paese e il cui amministratore
delegato risiede in Svizzera è esattamente come esporre la strategia di
difesa della lingua italiana usando l’espressione inglese «made in
Italy»: una ipocrisia grottesca che comunica esattamente il contrario di
quanto afferma.
Decisamente più sincera la ministra Giannini. Ad
un giornalista che le chiedeva (mesi fa) quale fosse il principale
problema della scuola italiana, rispondeva candidamente che «l’Italia
paga un’impostazione eccessivamente teorica del sistema d’istruzione,
legata alle nostre radici classiche. Sapere non significa
necessariamente saper fare. Per formare persone altamente qualificate
come il mercato richiede è necessario imprimere un’impronta più pratica
all’istruzione italiana». Sono parole perfettamente assonanti a quelle
dell’introduzione alla riforma su cui voteremo il 4 dicembre: si cambia
la Costituzione «per affrontare su solide basi le nuove sfide della
competizione globale».
La lingua italiana serve al mercato, la
scuola serve al mercato, la Costituzione serve al mercato, i vertici
della Repubblica servono al mercato: le berline di lusso sotto le statue
di Petrarca e Boccaccio agli Uffizi sono il simbolo più eloquente di
questa incondiziata servitù.
Abituarsi a leggere, a decostruire, a
interpretare questo codice simbolico di potere e supremazia significa –
per usare le parole di Marc Bloch – preparare «un antidoto alle tossine
della propaganda e della menzogna».
Un simile antidoto può
giovarci quotidianamente, come può chiarire un esempio preso
dall’attualità più stretta. La trasmissione della serie su “The Young
Pope” di Paolo Sorrentino aprirà, inevitabilmente, dibattiti e
riflessioni sulle reazioni vaticane: ma l’unica reazione
incontrovertibile del Vaticano è da qualche giorno sotto gli occhi di
tutti, nel centro di Roma.
Qua il bramantesco Palazzo della
Cancelleria è coperto da giganteschi cartelloni pubblicitari della
serie, con un Jude Law in abiti papali alto venti metri: ebbene, quel
palazzo non è solo un apice del Rinascimento, ma è anche una proprietà
extraterritoriale del Vaticano. Così il pensiero unico del marketing
impone la sua pace in nome dell’unico dio, il Mercato.
Chi
dissente non è nemmeno sentito come un nemico, ma come un eccentrico,
quasi un demente: un’ondata di gelida incomprensione ha investito la
vedova di Lucio Battisti che si oppone al fatto che le canzoni del
marito possano essere usate in spot commerciali. Chi l’avrebbe mai detto
che “Il mio canto libero” sarebbe diventato l’inno dell’ultima
resistenza al dominio del marketing?