La Stampa 9.10.16
Budapest 1956, i giorni che sconvolsero il mio mondo
Sessanta
anni fa lo storico della letteratura fu tra i firmatari del “Manifesto
dei 101” intellettuali legati al Pci che solidarizzarono con gli
insorti: quella scelta segnò una svolta nella sua vita
intervista di Mirella Serri
«Entrammo
nella sede romana dell’Unità, in via 4 Novembre, pieni di speranze e di
attese. Facevo parte della delegazione di professori e studenti
incaricata di consegnare al giornale un documento che prendeva di petto
una questione cruciale: sollecitavamo il Partito comunista ad avviare
una discussione su quanto stava accadendo a Budapest». Alberto Asor Rosa
ricorda così quei convulsi giorni della rivolta ungherese del 1956,
quando i blindati sovietici schiacciarono le speranze del paese
satellite dell’Urss che chiedeva libertà culturali, economiche e
politiche. Proprio in questo mese ricorrono i 60 anni dalla rivoluzione
che, iniziata il 23 ottobre, segnò per la prima volta una fino ad allora
impensabile cesura nel mondo comunista, e in cui morirono circa tremila
ungheresi e quasi mille soldati sovietici, mentre fuggirono all’estero
250 mila persone.
Lo storico della letteratura aveva all’epoca 23
anni, era in procinto di laurearsi e fu uno dei firmatari del manifesto
dei 101 intellettuali del Pci che decisero di non piegare la testa e di
esprimere solidarietà con gli insorti. Quella firma siglò, però, una
svolta radicale anche nella sua vita: l’anno successivo il futuro
professore uscì dal partito di Togliatti, a cui aveva aderito quando
aveva 20 anni, e vi rientrò solo venti anni dopo. «Mi iscrissi dopo la
morte di Stalin. Il rapporto di Nikita Krusciov al XX Congresso del Pcus
del febbraio 1956, in cui si denunciavano i crimini del dittatore, ci
fece in seguito respirare un’aria di apertura e di cambiamenti. Mario
Tronti e io, per esempio, pubblicammo sulla rivista Il contemporaneo di
Carlo Salinari un saggio sui problemi del marxismo per nulla allineato
ai dogmi del Pci. Ero iscritto alla storica sezione universitaria
Italia, nei pressi di piazza Bologna, di cui facevano parte docenti e
studenti, e mi trovavo a discutere a fianco di professori che stimavo
molto, come Carlo Muscetta e Natalino Sapegno, a cui si aggiungevano
Tronti, Alberto Caracciolo, Lucio Colletti, Piero Melograni e tanti
altri».
Come reagiste quando si diffuse la notizia della rivolta?
«Dopo
riunioni fiume in sezione, stilammo il documento che chiedeva più
democrazia ed esprimeva il sostegno ai ribelli. All’Unità ci ricevette
il direttore, Pietro Ingrao, che era considerato un leader molto
sensibile alle sollecitazioni della base».
Anche alle vostre richieste?
«Macché.
Fu di una durezza senza pari, non fece nessuna concessione: obbediva al
mandato che veniva dal vertice di stroncare qualsiasi deviazione dalle
prese di posizione ufficiali. “In Ungheria”, ci disse, “si combatte una
battaglia per la difesa nel sistema socialista nel mondo, e per questo
non possiamo avere alcuna indulgenza”».
Ingrao pubblicò
sull’Unitàl’editoriale «Da una parte della barricata» in cui appoggiava i
sovietici. Successivamente farà ammenda.
«Con noi non ebbe
esitazioni. Convocato dalla nostra sezione, ribadì il suo punto di
vista. Mentre ascoltavo il suo intervento non percepii i dubbi di cui
parlerà anni dopo: ma il suo atteggiamento è comprensibile, esisteva un
vero culto per l’unità e la compattezza del partito».
La bozza di
documento proposta all‘Unità dal gruppo universitario romano diventerà
la base del manifesto dei 101 intellettuali messo a punto da Muscetta
nella notte tra il 28 e il 29 ottobre (lo firmeranno anche Renzo
Vespignani, Enzo Siciliano, Elio Petri, Renzo De Felice, Carlo Aymonino,
Luciano Cafagna e tanti altri ancora) e sarà diffuso dall’Ansa. Non
farà invece la sua apparizione sul giornale di Ingrao.
«Quando
verrà arrestato e poi condannato a morte il presidente del Consiglio
ungherese, Imre Nagy, che aspirava a nuove relazioni con l’Occidente,
decisi per l’addio al Pci», commenta Asor Rosa. «Quelle giornate della
ribellione magiara furono passionali e coinvolgenti, prenderanno corpo
legami che dureranno tutta la vita, come quelli con Tronti e con Bianca
Saletti che firmò il manifesto e che diventerà mia moglie. Abbiamo
vissuto in un clima totalizzante nel quale il pensiero delle scelte da
prendere, notte e giorno, non ci abbandonava mai. Ci sentivamo in
trincea».
Un «eremita del socialismo»: così Italo Calvino, che
nell’agosto 1957 darà anche lui le dimissioni dal Pci, diceva di
sentirsi dopo lo strappo dalla grande famiglia comunista che era stata
da poco abbandonata anche da Antonio Giolitti. È capitato anche a lei?
«Ho
sempre avuto presenti le immagini degli operai ungheresi che si
ribellavano per una giusta causa. Noi intellettuali, però, abbiamo
percepito l’estraneità della gran massa degli iscritti al Pci alle
nostre istanze. Basta un esempio: nella sala riunioni della sezione
Italia si accedeva attraverso un corridoio spesso affollato da
militanti, operai e conducenti dell’Atac. Avvertivamo nei nostri
confronti - gli eretici che volevamo demolire il potere socialista - la
loro riprovazione. Il mio nuovo approdo sarà la rivista socialista Mondo
operaio, diretta da Raniero Panzieri che aveva duramente criticato la
reazione sovietica. Dopo il 1956 il Pci cominciò, però, a orientarsi
verso un percorso più liberale e tollerante».