La Stampa 8.10.16
Pascal Lamy: “L’Ue rischia di cadere come l’impero austro-ungarico”
L’economista: la crescita non basta, occorre una cultura comune
di Marco Zatterin
Jean-Claude
Juncker dice che l’Europa attraversa una crisi esistenziale. Lei, che
ne pensa? Attraverso gli occhiali rossi Pascal Lamy concede uno sguardo
riflessivo: «Fortunatamente non devo fare discorsi all’Europarlamento -
sorride -, dunque non ho bisogno di drammatizzare le cose». Eppure,
aggiunge il francese che ha passato dieci anni al fianco di Jacques
Delors quando era presidente della Commissione Ue, «è vero che in questa
simultaneità di crisi differenti c’è qualcosa che erode il senso
dell’Europa e del suo progetto». Una tempesta complessa, argomenta. Da
cui si esce con le soluzioni ovvie - investimenti e mercato -, ma anche
elaborando una visione europea vera «che sappia diffondere il senso di
appartenenza» all’Unione fra i cittadini. Sennò si rischia di fare ben
poca strada.
In una pausa dei lavori con cui l’Istituto Delors ha
celebrato i vent’anni di attività, l’economista che ha guidato
l’Organizzazione mondiale del commercio, ragiona sull’Europa e le sue
magagne. Sono giorni cupi e c’è chi legge nell’incertezza una corrente
simile a quella dell’estate 1914, quando stava per succedere qualcosa di
terribile e nessuno sapeva cosa fare.
«Non ho mai creduto che la
storia possa offrire due volte lo stesso piatto», frena Lamy. Tuttavia,
aggiunge felpato, «le turbolenze che viviamo sono dovute alle
grandissima velocità della trasformazione del mondo occidentale. Il
motore del cambiamento è l’evoluzione delle infrastrutture tecniche e
informatiche. Unito al ritmo rapidissimo con cui si è affermata la
globalizzazione, può ricordare le ragioni che hanno portato alla caduta
dell’impero austro-ungarico. Ma non andrei più lontano, non sino a
spingermi a parlare di guerre».
Non vede nemmeno un fermento simile a quello seguito alla Grande Guerra?
«In
questa crisi ci sono umori imparentati con quelli che portarono
all’affermarsi di fascismo e nazismo. Qualcosa c’è, anche se la
situazione è differente».
Meglio cambiare approccio?
«Il
sogno dei padri fondatori, cioè che l’integrazione politica sarebbe
scaturita automaticamente dall’integrazione economica, richiedeva
un’alchimia formidabile. Bisogna riconoscere che non sta funzionando».
E allora?
«Manca
un catalizzatore simbolico e culturale. Delors diceva che “non ci si
innamora di un grande mercato”, mentre la formula (apocrifa) attribuita a
Jean Monnet recita “se dovessi ricominciare, lo farei dalla cultura”.
Sono considerazioni giuste. Mancano una cultura, un movimento, uno
spirito comune».
Come si supera l’impasse dell’economia piatta?
«Conosciamo
i cantieri su cui bisogna lavorare. La crescita in Europa è più bassa
rispetto all’America o alla Cina perché non siamo abbastanza giovani,
investiamo poco, non innoviamo a sufficienza e non siamo uniti. Abbiamo
un potenziale di sviluppo da un punto e mezzo. Per alzarlo a due e mezzo
oppure oltre, cioè portarlo alla soglia minima per permetterci il
modello sociale europeo, occorrono investimenti, gestione demografica,
ricerca e approccio corale».
Un esempio?
«Guardiamo ai servizi. Abbiamo grandi potenzialità, ma non c’è un mercato unico. In America c’è. Fine della storia».
A voler essere più pratici?
«Bisogna
riparare l’Unione monetaria, dall’inizio sapevamo che c’era qualcosa
che mancava. Poi intervenire sulla sicurezza e la difesa comune,
rafforzando le frontiere esterne. Infine fare qualcosa per i giovani. E’
facile dirlo come ha fatto Juncker al Parlamento europeo. Intanto,
però, l’Erasmus che l’istituto Delors ha proposto due anni fa per i
tirocinanti non si muove. E’ sul tavolo e tutti dicono che è una buona
idea. Poi però salta fuori qualcuno che dice che costa troppo e altri
che rimarcano l’esistenza di piccoli programmi analoghi. Senza contare
chi teme che i giovani della periferia andranno al centro, impareranno
un mestiere e resteranno lì, “rubando” il posto ai locali. Cosi, non si
può pretendere che l’Europa funzioni davvero».