Il Sole 8.10.16
Università
Un cambio di paradigma per reclutare i docenti
di Dario Braga
Edvard
e May-Britt Moser sono marito e moglie, lavorano insieme, e insieme
hanno avuto il Nobel per la medicina nel 2014. Il comitato dei Nobel non
ha evidentemente un “codice etico” che impedisce di assegnare il più
alto riconoscimento scientifico a marito e moglie. E non è certo la
prima volta. Fu così per Gerty and Carl Cori (1947) e per Frédéric
Joliot e la moglie Irène Curie (1935), per altro figlia di Marie Curie
che il Nobel lo aveva avuto insieme al marito Pierre nel 1903. E poi ci
sono padri e figli, come i Bragg (1915), e i Bohr (Niels nel 1922, e
Aage nel 1975), e i Siegbahn (Manne nel 1924 e Kai nel 1981) e potrei
proseguire. Insomma, padri e figli, mogli e mariti. Raffaele Cantone,
nella sua recente intervista, molto citata, ha richiamato alcuni
problemi della nostra accademia (scambi di cattedre, cognomi ricorrenti,
segnalazioni sui concorsi) che non sarò certo io a negare.
Il
comitato per il Nobel però dimostra che essere figlio di scienziati non è
garanzia di eccellenza, ma nemmeno garanzia del contrario. Così come
essere marito e moglie non è garanzia di favoritismo, o “presunzione di
favoritismo”. Anzi, in altri Paesi il reclutamento di coppie di studiosi
o di scienziati è prassi consolidata. Rappresenta persino una
convenienza, non foss’altro perché aumenta la probabilità che una coppia
di valore rimanga più a lungo di uno/a scienziato/a con famiglia
altrove.
Da noi? Da noi le università hanno codici etici (ex legge
Gelmini) così stringenti da far sì che persino due borsisti – se marito
e moglie – non possano ambire ad avere posti di ricercatore a tempo
determinato nello stesso dipartimento, per non parlare di promozioni di
carriera. A quei giovani che incontrassero il partner di vita
all’università, magari perché legati da quella passione bruciante che
spinge a lavorare “round the clock” per ottenere un risultato di
ricerca, oggi andrebbe seriamente detto «non pensateci nemmeno a
sposarvi, la vostra avventura insieme sarebbe interrotta». Si sa…
l’italiano è incline al favoritismo e norme così rigide si giustificano
con la necessità di contrastare comportamenti scorretti.
Eppure, nonostante le regole concorsuali e i codici, Cantone ci informa che le denunce non diminuiscono.
E
se provassimo a cambiare approccio? Se, per una volta, la smettessimo
di affidare alle norme e ai codici il compito di sorreggere l’etica?
Un’azienda assume un buon gestionale, una banca un buon economista, una
squadra di calcio un buon calciatore, non perché sia eticamente corretto
ma perché è funzionale al raggiungimento degli obiettivi. Smettiamo di
pensare che assumendo per concorso pubblico per titoli ed esami si
garantisca qualità ed equità. Non è così. L’unica vera garanzia che si
dà – se la procedura concorsuale è stata condotta correttamente – è la
blindatura burocratica alla decisione presa, buona o cattiva che sia.È
un cambio di paradigma: dalla correttezza formale alla responsabilità
sostanziale. Le norme e le prassi devono spingere a rendere conveniente
promuovere e assumere i migliori facendo sì che chi opera la scelta lo
faccia alla luce del sole mettendoci la faccia.Il corollario però è che
bisogna anche essere in grado di attrarre i migliori. “Là fuori”, in
Europa, c’è un mercato fluido dove si spostano i ricercatori, dove i
curricula si nutrono di scambi ed esperienza. Quando uno/a si ferma è
perché ha trovato le condizioni per poter realizzare il proprio progetto
di ricerca, che, a volte, è anche un progetto di vita. I nostri
ricercatori entrano facilmente in quel circuito ma il nostro paese ne è
largamente escluso.In questa logica va vista anche la “fuga dei
cervelli”. Fenomeno che affrontiamo più o meno con lo stesso spirito con
il quale si guarda ai migranti che approdano nel nostro paese. “Brain
drain” non si traduce con “fuga”, si traduce con prosciugamento,
depauperamento, salasso. Molti dei nostri ricercatori più motivati
trovano altrove quello che, semplicemente, qui nessuno è in grado di
offrirgli: il riconoscimento del proprio valore e la concreta
possibilità di mettere alla prova le proprie idee in una vasta
competizione internazionale. Fino a quando il nostro paese riserverà
alla ricerca risorse residuali e fino a quando tratterà le carriere dei
ricercatori come un impiego intercambiabile in cui uno vale l’altro, i
nostri ricercatori, accuratamente preparati da noi, continueranno ad
essere attratti altrove.
L’autore è Presidente dell’Istituto Studi Superiori dell’Università di Bologna