Corriere 8.10.16
Gli studenti e la protesta come un rito
di Sabino Cassese
La
protesta degli studenti: un rito che si ripete da un cinquantennio. Una
volta si scendeva nelle strade per Trieste italiana. Ora la protesta è
motivata dalle più diverse ragioni, grandi e piccole, vicine e lontane:
istruzione gratuita (ma bisogna cercare i mezzi per farvi fronte, dove
non lo è già, come nell’università); istruzione di qualità (anche questa
una giusta richiesta, ma non si può avere dall’oggi al domani; c’è
bisogno di un ventennio per realizzarla); diritto allo studio (richiesta
ragionevole, anche perché garantita dalla Costituzione); rifiuto della
scuola azienda e del preside manager (ma questi non vanno condannati,
perché sono i mezzi per assicurare l’autonomia degli istituti scolastici
pubblici e abbandonare il centralismo); critica della privatizzazione
dei luoghi del sapere (ma non è meglio assicurare il fine pubblico e
realizzarlo con strumenti privatistici, invece che in modi
burocratici?); no alle diseguaglianze di fatto (lo disse tra i primi
Karl Marx, e, nonostante tanti sforzi, sappiamo che è ancora un
obiettivo lontano, che costerà lacrime e sangue); no a Renzi (in Italia
c’è libertà di opinione e la Costituzione garantisce che le forze
politiche, con metodo democratico, competano). Insomma, c’è tanta
energia nelle richieste studentesche, ma anche tanta confusione tra
speranze smisurate e speranze ragionevoli (la distinzione è di uno dei
nostri maggiori storici della filosofia, Paolo Rossi).
L a
protesta studentesca è inoltre prigioniera di due miti, quello per cui
pubblico è buono, privato cattivo; e quello per cui bisogna scendere per
strada, bloccare il traffico, danneggiare proprietà private e
pubbliche, per farsi ascoltare. Tanti sprechi e soperchierie pubblici,
tante inefficienze, tanti guasti prodotti dal burocratismo e
dall’ignavia di gestori pubblici non hanno ancora convinto i nostri
studenti che non si può opporre privato a pubblico, che è sbagliato
ritenere il primo regno del male, il secondo regno del bene. Gli abusi
della libertà di riunione, di quella di manifestare nei luoghi pubblici,
i danni conseguenti, i disagi provocati a cittadini incolpevoli, non
hanno ancora insegnato che la competizione «con metodo democratico»
comporta anche il rispetto dei diritti degli altri e il senso del
limite.
È un peccato che questo senso del limite non sia entrato
nello stile della protesta studentesca, perché questa troverebbe maggior
ascolto. Essa ha radici comprensibili. È indicatore di un disagio di
chi studia (e lavora) nella scuola, perché l’autonomia scolastica è
rimasta una promessa, i mezzi sono pochi e le strutture obsolete, non
esiste un sistema di istruzione ricorrente degli adulti, i governi che
si sono succeduti non hanno avuto una politica scolastica. Rivela una
preoccupazione, quella sul futuro. La generazione cresciuta negli anni
del miracolo viveva molto peggio, ma aveva dinanzi a sé un futuro
migliore. Quella di oggi vive meglio, dispone di più mezzi, ma sa di
avere dinanzi un futuro incerto, perché la attende un’epoca di
insicurezza.
È questo il messaggio della protesta, e su questo
sarebbe utile oggi riflettere, per cercare rimedi ragionevoli, senza
coltivare smisurate speranze.