il manifesto 8.10.16
De Masi: «Bravissimi a protestare, io toglierei il numero chiuso»
Il
 sociologo sulle agitazioni studentesche. L'Italia deve tornare a 
investire sull'istruzione, costruiamo tante aule. Bastano i 
prefabbricati, con un computer e un proiettore. Le società più avanzate 
sono quelle che hanno finanziato la formazione. Il nostro Paese invece è
 fermo al 13% di laureati. Gli 80 euro? Bisognava spenderli tutti sulle 
università
di Antonio Sciotto
«Bravissimi. 
Ottimo, ottimo. Hanno ragione da vendere». Il sociologo Domenico De 
Masi, esperto di lavoro e organizzazioni, promuove le proteste dei 
giovani italiani per il diritto allo studio. E individua pochi 
ingredienti, semplici, per rilanciare non solo l’istruzione, ma l’intero
 Paese: «Dobbiamo togliere il numero chiuso all’università, e costruire 
più aule: bastano anche prefabbricate, quelle che si danno in genere ai 
terremotati. L’importante è avere un portatile e un proiettore. Prima di
 qualsiasi altra riforma, si deve abbattere l’ignoranza. L’Italia oggi è
 bloccata perché almeno dagli anni Ottanta non investiamo più su scuola e
 ricerca».
Cosa è accaduto, cosa ci ha impedito di crescere?
Il sociologo Domenico De Masi
Il sociologo Domenico De Masi
Negli
 anni Ottanta alcune aree del mondo hanno compreso che il loro futuro 
sarebbe dipeso da conoscenza e innovazione e quindi hanno cominciato a 
puntare tutto sulla formazione: oggi, a 40 anni di distanza, ci 
ritroviamo non soltanto Stati, ma spesso anche singole città o regioni 
che presentano salari alti, bassa criminalità, una elevata percentuale 
di votanti alle elezioni e qualità della vita, forti dosi di attività 
culturali. Dall’altro lato, proprio accanto a queste realtà, magari a 
un’ora di macchina, c’è chi non ha investito in formazione: e ai nostri 
giorni registra così alti tassi di criminalità e bassa presenza alle 
urne, stipendi inadeguati e attività culturali povere, numerosi divorzi.
 C’è uno studio molto interessante di Enrico Moretti, economista a 
Berkeley, che analizza proprio il rapporto tra diversi distretti degli 
Usa: Boston, San Diego o Santa Barbara sono molto più avanzate di città 
non troppo distanti geograficamente. E analogamente, su un’altra scala, 
mentre Seul, Bangalore e San Francisco triplicavano le infrastrutture 
istruttive, università, laboratori di ricerca, noi in Italia le abbiamo 
praticamente distrutte.
Dove legge la maggiore evidenza di questo gap?
Soprattutto
 nella percentuale di laureati: in Italia è al 13%, come in diversi 
paesi africani, mentre nelle aree più avanzate del mondo siamo al 50%. 
Su 100 giovani in età universitaria, in Corea del Sud studiano in 96, 
negli Usa 94, e in Italia solo 36. Di questi 36, solo 22 arriveranno 
alla laurea triennale e 16 alla quinquennale.
Come si può fare per elevare quella percentuale?
Per
 un verso farei come in Germania, che da due anni ha eliminato le tasse 
universitarie. La stessa Hillary Clinton si è posta questo obiettivo nel
 suo programma. In italia al contrario le tasse aumentano, ma alla fine 
il problema non è neanche questo: la vera assurdità è aver introdotto il
 numero chiuso, una follia di cui voi giornalisti non vi state 
interessando. Ai test di ingresso di due settimane fa si sono presentati
 300 mila giovani per 98 mila posti. Questo vuol dire che oltre 200 mila
 ragazzi italiani non potranno studiare. A Napoli, nelle facoltà 
scientifiche si sono presentati 3 mila concorrenti per mille posti. Il 
Policlinico ha creato un corso di laurea in inglese, ma solo con 31 
posti a fronte di 300 candidati. I 270 ragazzi che non entreranno sono 
disposti insomma a studiare in inglese pur di potersi laureare in 
medicina, ma dovranno iscriversi a una facoltà per cui non provano 
interesse, o andranno a ingrossare i numeri dei cosiddetti Neet, i 
giovani che non studiano né lavorano.
Come mai l’Italia è arrivata a dover limitare gli ingressi?
Il
 rettore di Napoli ha spiegato che in questo modo, seppure a pochi, si 
possono offrire servizi migliori. Più in generale rispondono che mancano
 le aule, i professori. Ma le aule potremmo farle in una settimana con 
dei prefabbricati, come quelli che si danno ai terremotati. Basta 
dotarle di un computer portatile e di un proiettore. Non servirebbero 
nemmeno le sedie: i ragazzi potrebbero portarsi un cuscino da casa. 
Voglio dire che c’è un grande bisogno di istruzione che viene di fatto 
ignorato. E i professori? Gli assistenti arrivano a 50 anni e oltre, 
mentre io ai miei tempi diventai ordinario a 26 anni. Ci sono schiere di
 docenti che sarebbero pronti a lavorare. Certo, se venissero 
regolarizzati e pagati decentemente.
È un problema di scelte politiche, di dove metti le risorse.
Ma
 questi 80 euro dati a tappeto, non era meglio se invece li avessimo 
concentrati sull’università? Avremmo innanzitutto abbattuto la 
disoccupazione giovanile, che ora è al 40%: negli Usa è al 7%, ma ci 
credo, perché i ragazzi stanno all’università e lo studente quindi non 
viene calcolato tra i disoccupati. E poi prepareresti un’Italia migliore
 per i prossimi venti anni. Puoi fare tutte le riforme del mondo, ma 
quando le vai ad applicare in un corpo sociale in cui soltanto il 13% è 
di laureati, è tutto inutile. Se i nostri ministri della Giustizia e 
della Salute non sono laureati, se sugli ultimi cinque sindaci di Roma 
lo sono solo Marino e Raggi, che messaggio dai ai ragazzi? Che 
l’università non serve a un tubo.
I giovani non trovano lavoro, 
quindi, perché in pochi riescono a laurearsi? L’ultimo rapporto 
Migrantes parla di 107 mila italiani emigrati nel 2015: un trend in 
salita, con una buona fetta di loro che è under 34, viene dal Nord e ha 
un alto livello di istruzione.
Qui c’è un equivoco che in America,
 a Seoul o a Bangalore hanno già superato: la laurea non serve per 
trovare lavoro. O meglio, serve anche per trovare lavoro, ma 
innanzitutto forma il cittadino, gli permette di capire il telegiornale.
 Io dico sempre: meglio un disoccupato laureato che un disoccupato non 
laureato. Dobbiamo innanzitutto abbassare l’età scolastica media: fare 
in modo che si finisca l’università a 21-22-23 anni; in Giappone c’è 
l’obbligo a 21 anni. Da noi tra alta evasione scolastica e un sistema 
che non funziona su diversi livelli, i tempi si allungano e gli esiti si
 complicano. Ovviamente poi dobbiamo riuscire a elevare la percentuale 
dei laureati: se hai un Paese fermo al 13%, puoi costruire il migliore 
ospedale del mondo, ma poi ti ritrovi cittadini incapaci non solo di 
gestire ma anche di usufruire dei servizi pubblici, a partire dai 
pazienti. Come ho già detto, toglierei il numero chiuso all’università, 
investirei sulle lingue straniere, l’innovazione, la ricerca. Con numeri
 così dirompenti, o l’Italia si decide a cambiare, o resta condannata al
 terzo mondo.
 
