La Stampa 8.10.16
L’ostacolo sulla strada del premier
di Francesco Bei
A
 voler personalizzare, se Ignazio Marino ha vinto ieri la sua mano e ha 
riavuto indietro il suo onore, gli «sconfitti» sono almeno due. 
Indirettamente il capo della procura di Roma, Giuseppe Pignatone, che 
vede smontata dal giudice un’accusa che ha contribuito, in ultima 
istanza, al defenestramento del sindaco e ha spianato la strada del 
Campidoglio ai grillini azzerando un’intera classe dirigente (la 
smentita di ieri arriva, tra l’altro, all’indomani delle 116 richieste 
di archiviazione per i principali esponenti politici imputati in Mafia 
Capitale). Ma è in fondo il gioco della giustizia, accusa e difesa si 
combattono e un giudice giudica. Pignatone fa il suo mestiere, porta 
prove che devono essere valutate.
Politicamente lo sconfitto è 
invece Matteo Renzi, che fu il principale avversario di Marino, il vero 
artefice della sua caduta. Si può discutere finché si vuole sul fatto 
che la città fosse paralizzata, sulle gaffe di Marino, sulla sua scarsa 
empatia, sui ritardi, sulle immersioni ai Caraibi, sulla Panda in sosta 
vietata e sui cortocircuiti persino con il Papa. Ma aver trasformato un 
sindaco magari inefficiente e maldestro prima in un martire - con la 
grottesca vicenda delle dimissioni dal notaio dei consiglieri comunali -
 e poi in un nemico pubblico è stato peggio che un crimine, è stato un 
errore politico.
Adesso si tratterà di vedere quanto male potrà 
fargli Marino. La prima telefonata ricevuta dall’ex sindaco di Roma, 
quella con Massimo D’Alema, ha chiarito da che parte starà Marino nella 
guerra mortale che oppone Renzi e il vasto schieramento del No al 
referendum. Anche le attestazioni di stima a Marino da parte della 
minoranza dem, da Speranza a Cuperlo, rendono evidente che gli avversari
 del segretario del Pd, soprattutto quelli interni, possono contare da 
ieri su una nuova bocca di fuoco. Del resto, nell’intervista al nostro 
Fabio Martini, oggi Marino lo preannuncia trionfante: mi invitano 
ovunque a parlare del referendum e ci andrò per dire che la riforma di 
Renzi è scritta con i piedi.
Dalle parti del premier ieri sera ci 
si consolava con una battuta: «Per farci davvero male Marino avrebbe 
dovuto annunciare un comitato per il Sì». Ma la campagna, lo dicono i 
sondaggi, ancora non decolla, il Sud sembra perso e non c’è speranza che
 recuperi. Per Renzi si tratta solo di sperare che nelle regioni del 
Mezzogiorno sia alta l’astensione.
Ecco dunque la proposta. Invece
 di alimentare involontariamente la campagna del No con il miraggio 
delle sue dimissioni e l’addio alla politica (gli oppositori puntano più
 su questo aspetto che sul merito della riforma costituzionale), Renzi 
dovrebbe spiazzare tutti con un annuncio a sorpresa: me ne vado se vince
 il Sì. Soprattutto se vince il Sì. Nel senso: la mia missione era di 
cambiare l’Italia, ho ricevuto il mandato da Napolitano per questo, l’ho
 fatto, i cittadini l’hanno confermato con il voto, ora vi lascio in 
legato la Terza Repubblica, usatela bene. In un secondo toglierebbe ai 
suoi nemici l’arma di propaganda più forte, quella di voler instaurare 
una sorta di regime personale, ed entrerebbe nella storia.
De 
Gaulle nel 1968 vinse le elezioni ma l’anno dopo perse per un soffio un 
referendum di scarso valore politico sulla riforma del Senato (!). 
L’indomani a mezzogiorno si dimise e si ritirò a 
Colombey-les-Deux-Églises, sulle Ardenne. Ma ancora oggi è sua la firma 
sulla Costituzione della V Repubblica.
 
