La Stampa 5.10.16
Se la politica cede il passo agli avvocati
di Marcello Sorgi
Una
vecchia regola non scritta d’altri tempi diceva che quando una crisi
finisce in mano agli avvocati è segno che la politica viene meno al suo
ruolo. Il tardivo, e per certi versi disperato, ricorso al Tar del
Movimento 5 Stelle e di Sel, contro il quesito su cui gli elettori
dovranno votare il 4 dicembre, dà il senso di un’agitazione crescente
nel campo del «No»: anche se i sondaggi lo danno in vantaggio, nel largo
e trasversale fronte contrario alla riforma - che va dall’estrema
sinistra all’estrema destra, passando per D’Alema e Brunetta e con
l’appoggio di grandi giuristi guidati dal professor Zagrebelsky -, si fa
strada la sensazione che le file del ripensamento si stiano
ingrossando, portando indecisi e astensionisti più verso il «Sì».
Di
qui l’iniziativa legale mirata, se fosse accolta, ma è improbabile che
lo sia, a far saltare il referendum. Oppure, obiettivo più realistico, a
porre un argomento di propaganda, da usare prima e dopo i risultati
delle urne, specie in caso di approvazione della riforma con scarsa
affluenza ai seggi.
Quando probabilmente lo scontro si sposterà
sulla validità politica di una Costituzione riformata con il voto di una
parte della popolazione che, per quanto estesa, potrebbe non
rappresentare la maggioranza assoluta dei cittadini.
Non denota
grande accortezza chiamare in causa in via amministrativa il Quirinale,
che si è limitato a mettere in pratica una sentenza della Cassazione, e
dovrà, dopo il 4 dicembre, affrontare le prevedibili tensioni che il
risultato del referendum produrrà in ogni caso. In un Paese come il
nostro, considerato a torto o ragione la patria del diritto, trovare
avvocati che legittimamente siano in grado di stendere un ricorso è
sempre, o quasi sempre, possibile. Ma appunto, prima di mettere in moto
il contenzioso giurisdizionale, il senso politico avrebbe dovuto
suggerire qualche ulteriore riflessione. A meno di non voler gettare
tutto questo nel calderone della campagna elettorale che via via sta
assumendo aspetti grotteschi, come se appunto gli elettori fossero
chiamati a giudicare una specie di colpo di stato, e non una riforma
votata e approvata sei volte dal Parlamento.
Renzi è stato un
discreto avvocato di se stesso, ricordando che sul quesito contestato,
gli stessi che adesso si rivolgono al Tar per cancellarlo o cambiarlo
avevano raccolto le firme, pur non arrivando alle cinquecentomila che
avrebbero consentito anche a loro di proporre il referendum. Allora - ed
era solo sei mesi fa - né 5 stelle né Sel ebbero qualcosa da ridire sul
titolo di una legge eccezionalmente chiaro, rispetto all’astruseria
abituale dei testi giuridici. Ora invece sostengono che non è neutro e
con il riferimento esplicito alla riduzione delle spese per i
parlamentari potrebbe spingere al «Sì» gli elettori indecisi.
Nella
lunga storia dei referendum è accaduto altre volte di assistere a
polemiche simili. Dopo le prime consultazioni infatti, di fronte a
un’ondata di richieste avanzate dall’infaticabile Pannella, la Corte
costituzionale, nel 1981, introdusse restrizioni nella valutazione della
legittimità delle iniziative referendarie. Tra cui, guarda caso, la
«chiarezza», oltre all’ «omogeneità» e all’ «univocità» del quesito.
Così, già trentacinque anni fa, era stato stabilito che gli elettori
fossero messi in grado di capire facilmente su cosa erano chiamati a
esprimersi e quali sarebbero stati gli effetti delle loro scelte. Ci
volle un po’ di tempo, ovviamente, per far sì che i nuovi criteri si
affermassero. Anche per questo, sarebbe sorprendente che una delle poche
volte che la posta in gioco è chiara, fin dal titolo della legge da
approvare o da rifiutare, toccasse ai magistrati intervenire per
renderla più oscura.