La Stampa 5.10.16
Il gran ballo dei numeri sulle previsioni
di Franco Bruni
Nell’ottobre
di ogni anno il Fondo monetario internazionale prevede le crescite dei
Pil dell’anno dopo. Per l’Italia negli ultimi cinque anni ha previsto in
media una crescita di 0,9 punti in più di quella che poi c’è stata. Se
l’anno prossimo ripetesse il suo errore medio avremmo una crescita zero.
Se fossero coerenti coi giudizi dati lunedì sulle previsioni 2017 del
nostro governo (+1%), l’Ufficio Parlamentare di Bilancio accuserebbe il
Fondo di «eccesso di ottimismo».
A sua volta la Banca d’Italia lo
definirebbe «ambizioso», l’on. Brunetta urlerebbe al «falso in
bilancio». E’ forse meglio limare le critiche e prendere le previsioni
con le pinze. Padoan non può esimersi dal farle, ma imbastire critiche
analitiche acrobatiche o polemiche pretestuose sugli zero virgola è
sbagliato, quando non è maldestro bisticcio politichese.
Previsioni
come quelle sul Pil dell’anno prossimo incontrano almeno tre
difficoltà. La prima è che possono o meno tener conto dei provvedimenti
di politica economica che verranno presi durante il periodo previsto. Si
cerca di distinguere le previsioni tendenziali da quelle che
incorporano nuove misure, ma è un’operazione artificiosa che, fra
l’altro, sottovaluta l’impatto delle politiche sulle aspettative e
viceversa. La seconda difficoltà sono i gravi limiti tecnici della
macro-econometria. Il mondo è sempre più complicato, interrelato e
cangiante e i modelli statistici di previsione dovrebbero tener conto di
fattori internazionali ed extraeconomici sui quali si limitano a fare
ipotesi forzatamente discutibili. A ciò si lega il terzo genere di
difficoltà: si fanno previsioni in condizioni di elevata «incertezza»,
che in statistica è una brutta bestia.
Sarebbe infatti meglio
avere a che fare con la «rischiosità», cioè con scenari alternativi ai
quali si possono però associare ragionevoli probabilità. Invece
l’incertezza disorienta il calcolo delle probabilità, significa mancanza
di informazioni essenziali per previsioni ben ponderate. C’è incertezza
perché viviamo in tempi complessi con evoluzioni globali e geopolitiche
imprevedibili; ma una parte dell’incertezza ce la infliggiamo da soli,
in casa nostra, condizionando l’economia a litigi politici
destabilizzanti come quelli che, è inutile nasconderlo, circondano la
questione del referendum costituzionale. E sarebbe un paradossale
circolo vizioso se aumentassimo l’incertezza bisticciando anche sulle
previsioni che essa rende più difficili.
Prepariamoci invece a
domare l’incertezza centrando l’attenzione sulle tendenze di fondo, di
lungo andare, dell’economia e sulle misure strutturali che servono per
migliorarle. Il problema dell’Italia non è sollevare il Pil dell’anno
prossimo di qualche decimale, ma accrescere continuativamente, nei
prossimi due o tre lustri, la capacità produttiva di una delle economie
avanzate meno efficienti del mondo. Servono soprattutto provvedimenti
che stimolino e facilitino lo spostamento di lavoro, capitale,
imprenditorialità, energia politico-amministrativa, da dove sono meno
produttive a dove rendono di più.
Più che numeri macro occorrono i
numeri micro che sono alla loro base e sono spesso meno incerti.
Ricerche della Banca d’Italia mostrano che dopo la crisi del 2009 la
produttività aggregata in Italia è leggermente cresciuta; ma ciò è
avvenuto perché il guadagno di produttività derivante dalla morte di
imprese inefficienti ha più che compensato la perdita di produttività
dovuta alla nascita di nuove imprese, purtroppo nell’insieme anch’esse
inefficienti. Qualcosa non funziona: dobbiamo riorganizzarci
radicalmente, dismettere alla svelta quel che non va, impegnarci al
massimo per ridirigere lavoratori e investimenti dove buone previsioni
microeconomiche ci promettono produttività crescenti.