martedì 4 ottobre 2016

La Stampa 4.10.16
Manifesto e cura choc di Colomban: azzerare e vendere le partecipate
Così scriveva nel Think Tank Group vicino a Casaleggio
di Jacopo Iacoboni

Nelle chat del Movimento, quelli che storcono il naso per la sua nomina ad assessore chiave della giunta Raggi lo chiamano «comandante onorario della base militare (atomica) Usa di Aviano». Ma forse, più che di ossessioni, farebbero bene a occuparsi della realtà: e la realtà è che Massimo Colomban, il nuovo assessore alle partecipate di Roma, da fondatore del Think Tank Group (il Ttg, il network di imprenditori e intellettuali a cui era vicino Gianroberto Casaleggio) scrisse di sua mano un programma molto chiaro, e per certi versi lapidario, su cosa bisognava fare delle multiutilities e delle società partecipate in Italia: azzerarle; vendendone nel contempo i servizi ai privati.
La Stampa ha ritrovato due documenti, in archivi pubblici ma dimenticati, interessanti e inquietanti. Il primo è un testo noto anche come «programma di Castelbrando», «intitolato Adesso basta! Diciamo stop». Si tratta di un vero e proprio programma politico ante litteram del Movimento cinque stelle, sei pagine divise in quattro grandi punti che il Think Tank Group, il pensatoio di Confapri, offriva al Movimento come scheletro informale di leggi da spingere in parlamento. Il testo, ci dicono nostre fonti, è farina del sacco del futuro assessore alle partecipate di Roma Colomban.
Leggiamo al punto 3: «Diciamo basta alle migliaia di partecipate, concessioni, beni non valorizzati che spesso costituiscono un comodo rifugio e una sicura rendita ai politicanti trombati». Il futuro assessore della Raggi e il TTG stimavano che in tutta Italia «sono almeno 300 mld (alcune stime arrivano a 500 mld) che potrebbero essere immessi sul mercato, quotati in maniera trasparente, riducendo il debito pubblico e quindi la spesa per interessi da 30 ad oltre 50 mld/anno».
Senza entrare nel merito di queste stime, l’idea di Colomban, che da oggi ha potere di indirizzo politico su Ama (l’azienda dei rifiuti) e Atac (dei trasporti), e parzialmente su Acea (dell’acqua), era chiara: vanno azzerate, «privatizzate» (la parola è adoperata in un secondo documento), quotate sul mercato in modo tale da liberare risorse per i privati. Non pare che i poteri romani attivi tra rifuti, trasporti e energia, se ne debbano dolere, anzi. E i lavoratori? I dipendenti delle partecipate romane, Ama e Atac?
Quelli, spesso vere constituencies elettorali del Movimento a Roma, vanno salvati e assistiti eccome. Ma in che modo? Qui subentra il pensiero della Raggi, espresso in uno scambio avvenuto a fine 2015 sul suo profilo facebook tra la candidata, già prescelta con telefonata da Casaleggio, e Roberto Motta, il capo degli espulsi M5S, ora rientrato dopo l’ordinanza del tribunale di Napoli che ha invalidato le espulsioni. Motta chiede alla Raggi: «Virginia, spiega bene cosa vuoi farne delle municipalizzate... Modello Livorno e licenziamenti per tutti... Niente Cig (cassa integrazione)), solo reddito di cittadinanza...». La risposta di Raggi è sostanzialmente un sì: «Il modello di Livorno lo stiamo studiando. Il concordato in continuità, mantenendo i dipendenti e licenziando i dirigenti assunti a chiamata dal Pd senza alcun motivo, non mi pare male».
Tutto chiarissimo, insomma: basta Ama e Atac. Ma quale privato accetterà di ereditare, oltre a business succulenti, anche un numero pletorico di dipendenti ipersindacalizzati (spesso elettori M5S)? O servirà la creazione di qualche non proprio entusiasmante bad company?