La Stampa 3.10.16
“In Siria strage di medici. Sparano sulla Croce Rossa”
Il direttore dell’organizzazione internazionale Yves Daccord “Uccisi 54 nostri operatori, un record dalla Seconda Guerra”
di Francesca Paci
Roma
Sabato è stato messo fuori uso un altro degli ospedali a est di Aleppo,
la zona assediata dall’esercito di Assad. È quasi una non notizia,
ammette il direttore generale della Croce Rossa Internazionale Yves
Daccord: «Il bombardamento delle strutture sanitarie è ormai routine».
Daccord descrive la morte lenta della Stalingrado siriana con gli occhi
al cellulare per gli aggiornamenti dei suoi uomini sul campo.
I
volontari rimasti in città postano su WhatsApp le foto degli edifici
colpiti chiedendo di identificarli come M2 o M10 per non indicare ai
lealisti quali siano gli altri ancora in piedi. La situazione è a questo
punto?
«Ci sono attacchi sistematici al personale e alle
strutture mediche, sono stati bersagliati i convogli della Croce Rossa e
le ambulanze. Non si tratta più di episodi sporadici. Sebbene oggi
nessun posto sia sicuro, la gente di Aleppo ritiene più pericoloso stare
in un ospedale che in mezzo alla strada. In realtà non avviene solo ad
Aleppo, potrei dire lo stesso di Homs, Idlib».
È la fatalità della guerra o, come denuncia Medici Senza Frontiere, sono attacchi intenzionali?
«Entrambe
le cose. Da una parte, come in qualsiasi guerra civile che si consumi
nelle aree urbane, la linea del fronte si sposta di continuo spiazzando
le persone e i loro ripari. Dall’altra Medici Senza Frontiere ha
ragione: dal principio della crisi siriana assistiamo all’attacco
sistematico di dottori, infermieri, ospedali e malati da parte
dell’esercito di Damasco ma anche dell’Isis e di al Nusra. Sin dal 2011 è
evidente il disprezzo assoluto dei feriti e delle strutture sanitarie.
Il corpo delle vittime è diventato il campo in cui combattere l’estrema
battaglia, un salto di qualità che non si verifica in tutte le guerre».
Quante persone avete ad Aleppo e quante ne avete perse?
«Abbiamo
50 persone ad Aleppo di cui 6 internazionali. Il rischio è enorme ma
non possiamo lasciare soli i locali. Dal 2011 a oggi abbiamo avuto 54
operatori della Mezzaluna Rossa uccisi e 3 ostaggi internazionali, il
più alto numero di perdite dalla Seconda guerra mondiale».
L’Onu parla della Siria come della maggiore crisi internazionale dell’ultimo secolo. È così?
«Non
so fare paragoni perché l’accesso alle cifre è complesso, soprattutto
nella zona est di Aleppo. Ma difficilmente ho visto una situazione
simile, non perché nelle altre guerre non siano state commesse atrocità
ma perché l’abisso che separa l’Aleppo sofisticata di 5 anni fa da
quella di oggi è di una violenza drammatica, senza eguali».
Si cita l’assedio di Sarajevo.
«Ripeto,
non so comparare. Ma se c’è una similitudine sta nel fatto che a un
certo punto a Sarajevo tutti hanno pensato di poter vincere attraverso
la guerra e ad Aleppo sta succedendo proprio la stessa cosa».
Chi vive nella Aleppo assediata?
«Ci
sono 250 mila persone, non possono essere tutti terroristi o ribelli.
Perché sono rimasti? Ci sono fasi differenti in questi casi: all’inizio
molti riluttano a scappare perché non vogliono lasciare le proprie cose e
magari vanno nei villaggi vicini, poi quando la situazione si aggrava
fugge solo chi ha i soldi. Oggi è troppo tardi sia per chi ha
temporeggiato che per i poveri».
Cosa riuscite a far entrare?
«Poco
di medico. In questi casi i belligeranti si impediscono a vicenda la
cura dei feriti, fa parte del conflitto. Seppur a fatica ad Aleppo
riusciamo per esempio a portare acqua e servizi igienici ma medicine
quasi niente».
Si può ancora fare qualcosa?
«I leader
mondiali devono capire che non ci sarà una soluzione militare o
umanitaria in Siria ma solo politica. Per il resto sarebbe già molto
rispettare la risoluzione 2286 del Consiglio di sicurezza dell’Onu per
far passare i beni di prima necessità».