Il Sole 3.10.16
La corsa cinese agli investimenti esteri
In dieci anni il valore è cresciuto di oltre sette volte a quota 145 miliardi di dollari
di Rita Fatiguso
Pechino
Spostamenti di risorse dal Lussemburgo all’Olanda nell’area degli
investimenti europei (indotti, in linea di massima, da ragioni fiscali),
incremento di quelli in America Latina, passati dal 4 all’11,3% in soli
quattro anni, boom di quelli negli Usa (a dispetto delle polemiche
sulla stretta americana agli investimenti in arrivo da Pechino).
È
ricca di informazioni inedite la prima relazione congiunta sugli
investimenti all’estero nel 2015 (“Go global,” stando al nome del piano
cinese), resa nota da ministero del Commercio, Safe (l’agenzia che
monitora la valuta estera per conto della Banca centrale) e Istituto
nazionale di statistica. Prima del 2002, si legge nel documento diffuso
dal Governo cinese, non c’erano rilevazioni anche perché, banalmente, la
Cina non aveva ancora messo il naso fuori di casa.
Dalla allora è
stato un continuo aumento a due cifre. Nel 2015 il flusso di
investimenti netti è stato di 145,67 miliardi di dollari, con un aumento
del 18,3% sull’anno precedente. Lo stock ha raggiunto quota 1.097
miliardi. A livello globale la Cina è seconda alle spalle degli Usa e,
per quanto riguarda lo stock, si situa all’ottavo posto.
L’avanzata
all’estero è stata accompagnata dalle banche cinesi che, finora, hanno
creato un’ottantina di filiali e 57 istituzioni collegate in ben 42
Paesi, sostenendo il Go global delle aziende cinesi all'estero. Del
resto non si spiegherebbe come mai, nel 2002 la Cina era 26esima in
classifica con soli 2.7 miliardi dollari investiti.
Nel 2015,
inoltre, si è verificato uno storico sorpasso “interno”, gli
investimenti cinesi all’estero hanno superato quelli stranieri in Cina,
grazie anche alla gran mole di merger & acquisition cinesi nel
mondo. La frenata degli investimenti esteri non è certo una buona
notizia per la Cina: le aziende straniere si trovano spesso strette tra i
paletti all'ingresso e gli effetti della crisi globale, più accentuata
senz’altro nel caso dell'Europa.
Gli ultimi anni, tuttavia, sono
stati davvero eccezionali per la Cina all’estero, l’acquisizione
dell’italiana Pirelli da parte di ChemChina è stata importantissima, si è
trattato (almeno finora dal momento che in ballo c’è anche quella della
svizzera Sygenta) dell’acquisizione in assoluto più consistente operata
da una società cinese. In tutto si contano 579 M&A per un
valore di quasi 55 miliardi dollari. L’Italia nel 2015 è così balzata al
terzo posto dopo Usa e Isole Cayman, mentre alcuni settori, come i
servizi e l’intrattenimento hanno subito un’accelerazione
importantissima.
Per quanto riguarda la principale area di
destinazione, i Paesi Asean restano i preferiti con 108 miliardi
dollari, ma va anche detto che esiste un’area di libero scambio che
quest’anno sarà addirittura migliorata. Il primo Paese dell’area che
attira investimenti cinesi è sempre Singapore, seguita da Indonesia,
Laos e – new entry –Myanmar.
L’America latina con 12,6 miliardi
supera il Nord America (10.7 miliardi), un elemento nuovo nel panorama
delle principali destinazioni degli investimenti stranieri all’estero.
Il Nord America ha totalizzato ben 8 miliardi e ben 97 operazioni di
M&A, tra cui l’acquisizione del Waldorf Astoria da parte di
Anbang e le manovre di Wanda Dalian sull’industria dell’intrattenimento.
Per
quanto riguarda la provenienza delle risorse, l’80% arriva da fondi
locali, con tre province – Guangdong, Shanghai e Beijing – in testa alla
lista. I buoni rapporti tra Cina e Russia hanno comportato un aumento
degli investimenti cinesi: 2,9 miliardi e 367% di incremento rispetto al
2014, con la creazione di un migliaio di imprese in Russia che danno
lavoro a 40mila locali.
Resta cruciale in questo quadro il ruolo
di Hong Kong, ancora oggi principale interlocutore della Cina.
Moltissime operazioni (inclusa Pirelli) vengono condotte dalla Regione
amministrativa speciale, che in tal modo risulta tecnicamente la
principale destinataria degli investimenti stranieri di Mainland China.
Negli ultimi anni le distanze si sono accorciate sensibilmente, Pechino
ha creato legami sempre più forti con Hong Kong, senza però annullare le
differenze, che risiedono, in buona sostanza, nella diversa valuta
adottata e nel regime fiscale più favorevole che caratterizzano ancora
l’ex colonia Britannica.