La Stampa 3.10.16
Il doppio attacco a Bruxelles
di Stefano Stefanini
Ieri
la sfida all’Europa è venuta contemporaneamente dal caposaldo atlantico
e dal cuore centroeuropeo. Il Regno Unito se ne va alla ricerca di un
futuro globale. L’Ungheria rimane abbarbicata all’Unione Europea, ma
cercava d’imporre proprie condizioni non comprendenti l’accettazione di
migranti.
La sfida ungherese è solo mezzo mancata: non aver
raggiunto il 50% di affluenza ma conteggiare il 95% di voti
anti-immigrazione è un segnale preciso. Non a caso l’opposizione aveva
raccomandato la diserzione dalle urne, non il voto pro-immigrazione.
Orban esce sconfitto; come Putin, scopre anche che è più facile cullarsi
in alti indici di popolarità che scuotere la pigrizia dell’elettorato.
Il referendum fallito non farà però aprire le porte ungheresi
all’immigrazione. Né quelle degli altri Paesi di Visegrad (o di altri).
I
britannici si proiettano audacemente nel mondo e gli ungheresi si
attaccano al provincialismo dell’uniformità centroeuropea. Direzioni
opposte, ma entrambe all’insegna di una rivincita della sovranità
nazionale.
L’Europa è stretta nella morsa, che la politica
tradizionale non controlla, i Trattati non prevedevano, Bruxelles spesso
non capisce e la frenesia referendaria alimenta. Una nuova scuola di
leader, che forse ha in Theresa May l’ultima arrivata, cavalca l’onda. O
l’Europa comincia a pensare seriamente a come rispondere - finora non
l’ha fatto mettendo pezze all’immigrazione ed evadendo il tema di Brexit
- o si troverà presto più divisa di prima dopo aver perso un pezzo
importante.
L’Unione Europea ha molte frecce al suo arco. Lo sta
dimostrando con la procedura eccezionale di ratifica anticipata
dell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici. La ratifica europea
non viola le sovranità nazionali, ma permette di aggiungere i Paesi Ue
che hanno già ratificato (l’Italia non ancora, l’Ungheria sì) al quorum
necessario (55% delle emissioni globali) per l’entrata in vigore
dell’accordo. Con l’Ue a bordo il traguardo è praticamente raggiunto. È
stato un rapido successo politico: il problema era sorto solo due
settimane fa a margine dell’Assemblea Generale dell’Onu.
Per
britannici, che hanno fortemente incoraggiato la ratifica Ue
dell’accordo, e ungheresi la lezione è semplice. L’Unione non è inutile;
ha un peso internazionale che Londra, da sola, non sfiora. Per
Bruxelles la lezione è più sottile: concentrarsi dove più incisivo è il
ruolo e maggiore il valore aggiunto del blocco anziché dei singoli Stati
membri; rispettare le sfere nazionali, senza inutili rulli compressori.
È tempo di riscoprire la «sussidarietà», come limite all’ingerenza
regolamentare comunitaria dove non necessaria.
Brexit e resistenza
ungherese all’immigrazione non sono sullo stesso piano. L’eurodivorzio è
una svolta geopolitica radicale di cui il resto dell’Ue sembra non
rendersi pienamente conto. È affiorato ieri nel discorso di Theresa May
alla conferenza del Partito Conservatore a Birmingham. Il Primo Ministro
ha tracciato una visione del Regno Unito potenza mondiale che si libera
dei vincoli eurocentrici dell’Ue - con quanto realismo resta da vedere:
alcune delle frasi potrebbero tranquillamente figurare nel discorso
sullo stato dell’Unione del prossimo Presidente americano; in futuro,
fuori Birmingham un po’ di senso delle proporzioni non le guasterà.
Senza entrare nel merito di Brexit ha fatto capire che la
riappropriazione nazionale, immigrazione inclusa, ha la precedenza su
tutto, anche sul Mercato Unico. Ha fatto felice la platea conservatrice,
molto meno gli ambienti economici e gli investitori stranieri.
May
aveva esordito a Downing Street dicendo di voler fare di Brexit «un
successo». Si può dubitare che ci riesca, ma il messaggio è
galvanizzante. Bruxelles è ancora ferma sulle quattro (giuste) libertà
del Mercato Unico, inclusa l’immigrazione. È tempo che anche i 27
comincino a pensare, se non a fare di Brexit un successo (non lo sarà
per nessuno, Uk per primo, ma si possono limitare i danni), a cosa
vogliono ottenere nel divorzio. In gioco sono gli interessi dell’Ue, non
la punizione dei britannici. Henry Kissinger ha raccomandato di non
trattarli come detenuti evasi di prigione. Evitiamo di fare dell’Ue una
prigione: altri potrebbero voler scappare.
Quanto all’Ungheria e a
Viktor Orban, non ci sono sospiri di sollievo da sprecare. Il 44% di
affluenza alle urne lo indebolisce, ma non cambia quasi niente.
L’immigrazione rimane pesantemente sul tappeto europeo. Le quote erano
un espediente, non una soluzione. Sono inoperanti. Non ci sono risposte
facili, ma due direzioni in cui muoversi sono chiare: l’Ue deve assumere
la responsabilità del controllo degli arrivi, accoglienza e
respingimenti, alleviando l’onere sui Paesi in prima linea, come
l’Italia; occorre intervenire alla radice, sui Paesi di origine dei
migranti economici in Africa e sulle crisi in Siria, Libia, Yemen - la
lista è lunga.