lunedì 3 ottobre 2016

Corriere 3.10.16
La partita con l’Est è ancora aperta: l’Ue non giochi in difesa
di Franco Venturini

Viktor Orbán voleva dare uno schiaffo all’Europa ma gli ungheresi hanno dato uno schiaffo a lui: il referendum che doveva condannare le quote europee sui rifugiati non ha raggiunto ieri il 50% di partecipazione, e dunque non è valido. Questo a dispetto dei continui inviti alla mobilitazione da parte di Orbán, e dei trenta milioni di euro che le autorità di Budapest hanno speso in una campagna referendaria praticamente egemone. Il nazional-populismo del Premier e il suo rifiuto di accogliere 1.300 migranti come richiesto dal piano di Bruxelles escono dalle urne con un clamoroso occhio nero al posto del trionfo che Orbán si aspettava.
E tuttavia va detto subito, per non alimentare illusioni fuori posto, che la «questione magiara» è lungi dall’essere risolta. Gli ungheresi non amano i referendum, e tendono a disertarli quando il verdetto è scontato. Tra coloro che sono andati a votare, il «no» all’Europa stravince. Orbán utilizzerà di sicuro queste percentuali, non quelle dell’affluenza. E coprendo il suo occhio nero con due dita di cerone continuerà a spiegare che la società ungherese rifiuta di perdere la sua omogeneità etnica e religiosa accogliendo migranti musulmani, continuerà a confondere in perfetta malafede immigrazione e terrorismo, si confermerà come punta avanzata del Gruppo di Visegrád (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia), e tenterà di seminare la voglia di un referendum sui migranti anche altrove, in Germania prima di tutto.
La mancata validità della sentenza referendaria non basterà dunque a sbloccare le proposte della Commissione sulla redistribuzione dei rifugiati in tutti i Paesi della Ue. E questa è una brutta notizia per l’Italia, che peraltro non si aspettava svolte miracolose. Va ricordato che il piano delle quote approvato un anno fa riguardava 160 mila migranti bloccati in Italia e in Grecia. Di questi, soltanto poco più di 5 mila sono stati effettivamente «ricollocati». E l’Ungheria aiuta a capire come mai: alcune capitali a cominciare da Budapest si rifiutano di accogliere le loro quote malgrado l’esiguità dei numeri, mentre altre, comprese Parigi e Madrid, approvano il metodo ma tengono la porta appena socchiusa. Del resto non va passato sotto silenzio che anche i più favorevoli alle proposte della Commissione hanno ormai alzato le mani per non turbare l’intenso calendario elettorale in arrivo. Lo stesso Juncker ha affermato che «la solidarietà deve venire dal cuore, non può essere imposta». Angela Merkel si copre le spalle dopo le aperture dello scorso anno. Pesa l’esempio della Brexit. E la Turchia di Erdogan osserva dall’esterno, tenendo il coltello dalla parte del manico. Orbán ha soltanto cercato di accelerare un processo già in corso, anche se nessuno lo ammetterà pubblicamente. E il danno non può che colpire i due Paesi che dovevano essere aiutati, l’Italia e la Grecia. I due Paesi, vale a dire, che non possono chiudersi dietro i reticolati o i muri tanto cari agli ungheresi ma anche a molti altri europei, per il semplice motivo che da noi i migranti arrivano dal mare, e c’è soltanto da scegliere se lasciarli morire o salvarli.
A conti fatti il referendum ungherese cambierà molto poco a prescindere dalla legittimità formale dei suoi risultati. Il partito di Orbán è al potere dal 2010, e il suo principale rivale è alla sua destra: il nazionalismo xenofobo in Ungheria non è una novità, e non andrà via. Considerazioni simili valgono in tutto il gruppo di Visegrád, che rappresenta ormai una leva per la disgregazione dell’Europa forse più importante dei risultati elettorali che verranno da Italia, Olanda, Francia e Germania nei prossimi 12 mesi. Del resto l’Europa gioca in difesa, non si rivolge alle ansie dei populismi avanzanti e così non tenta nemmeno il loro recupero. Ma saranno comunque i migranti a decidere la partita, si dirà. Vero, e proprio per questo ai 4 di Visegrád che non accettano il principio fondante della solidarietà si dovrebbe rispondere che allora anche i cospicui aiuti finanziari provenienti da Bruxelles subiranno battute d’arresto. Ma nulla del genere accadrà prima della fine del 2017. E i difensori della purezza etnica lo sanno.